11
set
2008
Contos de foghile – La leggenda di San Pietro di Sorres.
Questa leggenda la lessi tempo fa in un giornale letterario sardo, La terra dei nuraghes, diafanamente scritta da Pompeo Calvia, uno dei più gentili poeti sardi.
È sulla chiesa di S. Pietro di Sorres, vicino a Torralba: un’antica chiesa storica, ora quasi rovinata, ritenuta, dice il Calvia, per il più antico monumento dell’arte medioevale che vanti la provincia. La dolce e misteriosa leggenda narra che viveva anticamente, forse verso il mille, un giovine mastro di Sorres, artista, poeta gentile; il quale tornando nel suo paese dopo aver studiato oltremare, presso un pittore ed architetto famoso, rimarcò nel villaggio una finestra misteriosa «dove con molta grazia ed abbondanza crescevano le rose, e le campanule s’intrecciavano alle spirali delle colonnine», che non si apriva mai, e tra i cui fiori non appariva mai nessuna testa. Solo ogni mese un arazzo intessuto di astri, di figurine e di foglie d’alloro, sventolava leggero sul davanzale, ma invisibile era la mano che lo spargeva e lo ritirava. Mosso dalla curiosità il giovane artista chiese informazioni su quella casetta arcana; ma nessuno gliele seppe mai dare. Il mistero più intenso regnava là intorno.
Allora il giovine si recò una notte ad origliare presso quella finestra e sentì solo una soavissima voce di donna cantare «come un canto di cigno che muore», e sentiva pure il muoversi leggero delle spole di un telaio.
Arso dalla curiosità l’artista un’altra notte prese la sua mandola e cantò una triste appassionata canzone sotto la finestra bizzarra. Poi, siccome la neve cadeva e la notte era cruda, picchiò chiedendo asilo e dicendosi un viandante smarrito. Ma una voce soave gli rispose: «Io non ho pane da darti, nel mio piccolo giaciglio non sono che spine; mille e mille gradini granati devi salire per arrivare a me che sì vicina ti sembro. Quando vi arrivi sono fredda come la morte. Viandante, va!».
E siccome lui insisteva lo consigliò di ricoverarsi nella chiesa vicina, ma egli replicò che la chiesa cadeva in rovina e dentro ci nevicava come fuori. «Fatene una voi, allora!», esclamò la voce. «Io farolla se voi m’ispirerete il disegno!»
«Te lo darò, va!» E la voce non parlò più.
Il giovine se ne andò, e dopo molti mesi vide nella finestra sparso un magnifico arazzo con una chiesa pisana ricamatavi. Era meraviglioso: vi si scorgeva tutto l’interno, coi più minuti particolari, e l’artista capì subito e si scolpì in testa quel disegno. Ma abbisognavano molti denari per costruire un simile tempio e il paese era poverissimo. Come fare? Il giovine, innamorato perdutamente della misteriosa abitatrice di Sorres che gli aveva proposto la costruzione della chiesa, deciso di adempiere la sua promessa pur di giungere a conoscerla, dipinse una Madonna in campo d’oro, con un mandorlo fiorito
in mano, e regalò la squisita sua dipintura alla vecchia chiesa cadente. Tutti ammirarono il quadro, e una mattina videro che la Madonna invece del mandorlo teneva in mano, una chiesa. Era simile a quella dell’arazzo, ed era stato il giovine che, introdottosi furtivamente nella notte in chiesa, l’aveva dipinta, cancellandovi il mandorlo. Si gridò al miracolo, e si disse subito che la Madonna voleva una chiesa così! Allora un fraticello prese il dipinto miracoloso e corse per i castelli ed i contadi e le ville raccogliendo denari e offerte per la costruzione della chiesa.
E quando ebbe riempito d’oro molti forzieri propose al giovine mastro di Sorres di edificare il tempio. Egli accettò: molti operai vennero chiamati all’opera e in breve – non ostante i mali spiriti che ogni notte distruggevano il fabbricato -, la chiesa sorse, bella e ricca come nel disegno dell’arazzo!
Nella notte precedente il dì della consacrazione, mentre tutto il villaggio, animato dalle genti dei villaggi vicini, festeggiava il grande avvenimento, il giovine mastro si recò alla casetta misteriosa e batté alla porta.
«Chi sei tu?», chiese la dolce voce incantatrice.
«Son venuto a prendere un fiore dalle tue mani e porlo alla Madonna, sospirò il giovine, aprimi!…»
«Bene sta, vengo.» La porta si aperse per incanto ed il giovine si trovò dinanzi alla misteriosa, che pareva vestita d’argento, con una stola nera sulla veste, sparsi i biondi capelli sulle spalle e pallidissimo il viso che spiccava nettamente innanzi ai ricami delle pareti, i quali sempre s’andavano cangiando, in intrecci di rabeschi e figure perfettamente intessute e disegnate. Nel mezzo di dette stoffe, immutabile campeggiava la chiesa di San Pietro di Sorres. In un canto stava il telaio, e d’oro tutti parevano i fili.
La bella accennò con gli occhi sereni, senza mutamento, tutta composta nella soavità dell’atto come le figure che si vedono nei mosaici bizantini. Aveva al piedi ramoscelli d’olivo e nelle mani rami di alloro con le bacche d’oro.
La bella lasciò andare una foglia di lauro, ed egli si chinò per raccoglierla, e come vide che la donna accennava d’avvicinarglisi, bella così come i sogni dell’ideale, il giovine si avvicinò ed un bacio pose su quelle labbra divine. Ma non appena ebbela baciata, che tutto si sentì un gelo come di sfinimento per le membra, e cadutole ai piedi, dolcemente guardandola morì!
Note:
[1] Questa premessa e le leggende “Il diavolo cervo”, “La leggenda di Aggius”, “La leggenda di Castel Doria”, “Il castello di Galtellì”, “La leggenda di Gonare”, “San Pietro di Sorres”, “La scomunica di Ollolai”, “Madama Galdona”, sono state pubblicate in Natura ed Arte, 15 aprile 1894.
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