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dic
2008
Contos de foghile – Nostra Signora del Buon Consiglio [9]
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
Oggi, miei piccoli amici, voglio raccontarvi una storia che vi commuoverà moltissimo, e che, se non vi commuoverà, non sarà certamente per colpa mia o delle cose che vi narro, ma perché avete il cuore di pietra.
C’era dunque una volta, in un villaggio della Sardegna per il quale voi non siete passati e forse non passerete mai, un uomo cattivo, che non credeva in Dio e non dava mai elemosina ai poveri.
Quest’uomo si chiamava don Juanne Perrez, perché d’origine spagnola, ed era brutto come il demonio. Abitava una casa immensa, ma nera e misteriosa, composta di cento e una stanza, e aveva con sé, per servirlo, una nipotina di quindici anni, chiamata Mariedda.
Mariedda era buona, bella e devota quanto suo zio era cattivo, brutto e scomunicato. Mariedda possedeva i più bei capelli neri di tutta la Sardegna, e i suoi occhi sembravano uno la stella del mattino, l’altro la stella della sera.
Don Juanne voleva male a Mariedda, come del resto voleva male a tutti i cristiani della terra; e, potendo, le avrebbe cavato gli occhioni belli; ma per un ultimo scrupolo di coscienza non voleva farle danno; solo, quando essa ebbe compito i quindici anni, pensò di sbarazzarsene maritandola a un brutto uomo del villaggio.
Ella però non volte acconsentire a questo infelice matrimonio, e il brutto uomo del villaggio, per vendicarsi dell’umiliante rifiuto, una notte sradicò tutte le piante del giardino di don Juanne e pose sulla soglia della casa, ove Mariedda e lo zio abitavano, un paio di corna e due grandissime zucche; e ogni notte passava sotto le finestre cantando canzoni cattive.
Impossibile descrivere l’ira di don Juanne, e l’avversione che d’allora cominciò a nutrire contro la povera Mariedda. Basta dire che un giorno la prese con sé nella stanza più remota della casa, e le disse: «Tu non hai voluto per marito Predu Concaepreda (Pietro Testadipietra). Beh! Ma siccome tu devi assolutamente maritarti, preparati a sposare me».
La poveretta rimase, come suol dirsi, di stucco, poi esclamò:
«Ma come va quest’affare? Voi non siete mio zio? E da quando in qua gli zii possono sposar le nipoti?».
«Tu sta zitta, fraschetta! Io ho dal papa il permesso di sposarmi con chi voglio, anche senza prete. E ho deciso di ammogliarmi con chi mi pare e piace. Tu pensa bene ai fatti tuoi. O quell’uomo del villaggio, o me. Ti lascio una notte per deciderti.» E se n’andò chiudendola dentro.
Appena sola, Mariedda si mise a piangere e a pregare fervorosamente Nostra Signora del Buon Consiglio, perché l’aiutasse e la ispirasse. Ed ecco, appena fatto notte, le apparve una donna bellissima, tutta circondata di luce, vestita di raso e di velo bianco, con un mantello azzurro e un diadema d’oro simile a quello della regina di Spagna.
Donde era entrata?
Mariedda non poteva spiegarselo, e stava a guardar a bocca aperta la bella Signora, quando questa le disse con voce che sembrava musica di violino: «Io sono Nostra Signora del Buon Consiglio, ed ho sentito la tua preghiera. Senti, Mariedda: Chiedi a tuo zio otto giorni di tempo, e se in capo a questi egli non avrà deposto il suo pensiero, chiamami di nuovo. Conservati sempre buona, e mai ti mancherà il mio aiuto e il mio consiglio».
Ciò detto sparve, lasciando nella stanza come una luce di luna e un odore di gelsomino.
Mariedda, che provava una viva gioia, pregò tutta la notte; e il domani chiese a suo zio otto giorni di tempo. Sebbene a malincuore, don Juanne glieli concesse; intanto, perché non fuggisse, la teneva sempre rinchiusa in quella stanza remota, nella quale perdurava la luce di luna e l’odore di gelsomino.
Passati però gli otto giorni, le chiese se si era decisa, ché lui voleva assolutamente sposarla il giorno dopo. Rimasta sola, Mariedda si rimise a piangere e pregare, ma tosto ricomparve quella Celeste Signora, che ora aveva un vestito di broccato d’oro e un diadema di perle come quello della Regina di Francia. «Dormi, Mariedda, e non temere», le disse con voce che pareva musica di rosignuolo. «Prendi questo rosario, che ha virtù di guarire i malati, e nella fortuna non dimenticarti di me, se non vuoi che t’incolga sventura.»
E sparì, lasciando nella stanza una luce d’aurora primaverile e una fragranza di garofani.
Mariedda non aveva potuto dire una sola parola. Speranzosa ed estasiata baciò il rosario di madreperla lasciatole dalla divina Signora, se lo pose al collo e si addormentò tranquillamente senza chiedersi che cosa l’indomani sarebbe avvenuto.
Ma l’indomani ella si svegliò sotto un roveto, vicino ad una palude; e tosto pensò che colà doveva averla trasportata, durante il sonno, la sua Santa Protettrice.
Levatasi, recitò la solita preghiera, poi si avviò verso una città che si scorgeva in lontananza, tra i vapori rosei del bellissimo mattino. Cammina, cammina, vide un piccolo pescatore che, a piedi scalzi e con la lenza sulla spalla, si recava a pescare in certi piccoli stagni azzurreggianti là intorno. Gli chiese: «Bel pescatore, in grazia, come si chiama quella città?».
Il pescatore non rispose, ma si mise a cantare: Io pesco anguilla, e do la caccia all’oca; Quella città laggiù si chiama Othoca [10].
«Be’», pensò Mariedda, «siamo ad Oristano.»
Cammina, cammina, entrò in città, e subito si diede a cercar una casa in cui potesse entrar come serva; ma inutilmente. Dopo tre giorni e tre notti di viavai da una porta all’altra, morente di fame e di stanchezza, non aveva ancora trovato padrona. Ma non disperava; e pregava, pregava sempre la bella Signora del Buon Consiglio, perché l’aiutasse.
Ora, al quarto giorno, passando davanti al palazzo reale, vide molta gente che parlava sommessa, pallida in volto e piena di dolore. «Bel soldato», chiese ad un giovine armigero, triste anch’egli come il resto della folla, «che cosa avviene?»
«Sta per morire il figlio del Giudice di Arboréa, e nessun medico può più salvarlo.»
Il Giudice era il re di Arboréa; quindi il figlio era il principe reale, il più bel cavaliere di tutta la Sardegna. Mariedda fu scossa dalla dolorosa notizia e stava per dire un’Ave per il principe moribondo, quando, toccando i grani del suo rosario si ricordò con gioia che questo possedeva la virtù di guarire i malati.
Senza dir nulla, attraversò la folla e riuscì a penetrare nel reale palazzo; ma un capitano delle guardie la fermò, e le chiese con arroganza cosa voleva.
«Vengo a guarire don Mariano, il principe malato», ella rispose umilmente. «Ho una medicina meravigliosa che fa guarire anche i moribondi.»
Allora il capitano arrogante la introdusse presso il Giudice, un vecchio re dalla barba lunga fino alle ginocchia, al quale Mariedda dové ripetere le sue parole. Il Giudice restò commosso dalla bellezza della piccola sconosciuta, e più per la sua promessa, ma le disse: «Bada, fanciulla dagli occhi di stella, se tu c’inganni, noi ti troncheremo la testa».
«E se salvo il principe?»
«Ti daremo ciò che vorrai.» Ciò detto introdusse egli stesso Mariedda presso il principe morente. Era tempo. Ancora pochi istanti e tutto era perduto.
Ma la nipote di don Juanne Perrez mise il rosario intorno al collo del principe e, inginocchiatasi sulla pelle di cervo stesa davanti al letto, pregò fervidamente.
Allora tutti gli astanti, bianchi in volto e pieni di meraviglia, videro un miracolo straordinario. Don Mariano riapriva gli occhi, i begli occhi castani dalle lunghe ciglia. A poco a poco le sue guance diventarono rosee come il fior degli oleandri dei giardini reali; la sua fronte rifulse di vita; sorrise; si alzò dicendo: «Padre mio, io rinasco. Chi mi ha salvato?».
Il Giudice piangeva di gioia, piangeva tanto che la sua barba gocciolava di lagrime come un albero bagnato dalla pioggia.
«Ecco!», rispose, sollevando Mariedda.
«Tu devi essere una fata», disse il principe, abbracciandola. «I tuoi occhi hanno una luce di luna. Tu sarai la mia sposa.»
Infatti, poco tempo dopo, cioè appena giunsero dalla Francia e dalle Fiandre i vestiti di broccato che stavano ritti da sé, tanto oro e argento avevano, e i veli e i manti per Mariedda, essa diventò Giudicessa d’Arboréa.
Ed era tanto felice che cominciò a dimenticare la raccomandazione di Nostra Signora del Buon Consiglio, cioè di pregarla e ricordarla sempre, anche nella buona fortuna.
Dopo un anno Mariedda aveva interamente dimenticato la sua Celeste Protettrice: il rosario miracoloso stava appeso nella reale cappella, fra altre reliquie e la Giudicessa scendeva raramente nella cappella, passando invece il tempo tra feste, cacce, tornei, e fra i canti e i liuti, e le mandole dei trovadori, che non mancavano nella corte degli Arboréa.
Ora avvenne che gli Spagnoli invasero il regno di Arboréa, e don Mariano, lo sposo di Mariedda, dovette partire col suo esercito per difendere le sue terre e cacciare gl’invasori. Partì e lasciò Mariedda presso a diventare madre di un bel principino.
«Addio, bella amica», le disse baciandola in fronte, prima di montare sul suo gran cavallo bianco dalla gualdrappa rossa, «sta di buon animo, e fa che al mio ritorno trovi un nuovo principino bello e forte come…»
«Come te, bell’amico! », rispose donna Mariedda con orgoglio.
Durante la guerra, don Mariano stette lungo tempo lontano dalla sua capitale, dal vecchio padre, dalla sposa, e questa, qualche mese dopo la sua partenza, divenne madre di un bellissimo bambino. Questo bambino era tutto color di rosa, e aveva i piedini e le manine che sembravano fiori.
Bisogna sappiate, però, che vi era chi aspettava ansiosamente il giorno della nascita del bellissimo bambino, per demolire tutta la felicità della Giudicessa donna Mariedda.
Era don Juanne Perrez. Sentite.
Dopo la separazione dalla nipote, egli aveva cominciato a odiarla ferocemente, giurando di vendicarsi. Ma per quante ricerche facesse nel Logudoro e nelle terre vicine, nessuno aveva mai veduto né sentito parlare della fanciulla dagli occhi di stella; e don Juanne già cominciava, con malvagia gioia, a creder che se l’avesse portata via il demonio; quando, recatosi ad Oristano per le feste in occasione delle nozze del principe, vide con meraviglia e dispetto, che la sposa era Mariedda!
Allora egli cosa fece? Tornò nel suo villaggio, vendé tutto quanto possedeva, e vendé persino la sua anima al diavolo, perché lo aiutasse nella vendetta; e si vestì da medico, con una lunga barba bianca, e una zimarra nera. Si vestì così perché in un vecchio libro aveva letto che talmente vestiva Claudio Galeno, un antico dottore. Così travestito, don Juanne Perrez se n’andò nuovamente ad Oristano, spacciandosi per un medico arrivato da Alemagna, e che aveva studiato a Ratisbona.
E tanto disse e tanto fece, che lo accettarono per medico di Corte. Mariedda non lo riconobbe punto. Perciò, quando nacque il bellissimo bambino più sopra accennato, fu chiamato il falso medico; e il falso medico, che aspettava questa occasione per vendicarsi, nascose il bellissimo bambino, e lo sostituì destramente con un cagnolino nero, brutto e rognoso, che teneva pronto. E fece quest’azione vigliacca con tanta destrezza, che neppure Mariedda se ne accorse.
Don Juanne non uccise il bellissimo bambino, ma lo lasciò morir di fame; perciò ancor oggi, in molti punti della Sardegna, la fame vien chiamata Monsiù Juanne, in memoria di questo fatto.
Intanto nella Corte Reale si era immersi nel massimo dolore e spavento, perché mai si era vista una cosa simile; e Mariedda aveva la febbre dal dispiacere e dall’umiliazione. Pazienza fosse stata una popolana a diventar madre di un cagnolino nero, brutto e rognoso, Santo Iddio! la cosa sarebbe stata passabile, perché in quei tempi esistevano le streghe che si maritavano col diavolo, e da questi orribili matrimoni potevano nascere anche cagnolini e scorpioni: ma una Giudicessina, che aveva vestiti di broccato, i quali stavano ritti da sé tant’oro e argento portavano!…
Basta; la cosa fu scritta a don Mariano che, per la prima volta in vita sua, pianse di dolore. E forse egli avrebbe perdonato Mariedda; ma sparsasi nel campo spagnolo la notizia destò tale ilarità e tante beffe a danno del principe nemico, che egli salì su tutte le furie, e scrisse al suo Maggiordomo che tosto pigliasse la Giudicessina col suo mostriciattolo e la portasse lontano, lontano, in luogo donde non potesse far ritorno, poiché egli la ripudiava.
Il Maggiordomo obbedì; e una notte la povera Mariedda si vide trasportata lontano lontano, in una campagna deserta e silenziosa. Fra le braccia ella stringeva il cagnolino, al quale aveva posto un grande amore.
Lasciata sola in quella campagna deserta e silenziosa, in quell’ora tremenda di disperazione, ella ricordò finalmente il suo passato, ricordò Nostra Signora del Buon Consiglio, e cadde al suolo piangendo, chiedendo misericordia e perdono.
Allora, come nella stanza buia e remota della casa di don Juanne, ecco si fece una gran luce d’oro, e in essa apparve la Madonna col vestito bianco e il manto azzurro e il diadema simile a quello della Regina di Spagna.
«Mariedda, Mariedda», disse con voce soavissima, che consolò la povera afflitta, «tu ti sei dimenticata di me, e per ciò sventura t’incolse. Ma io non abbandono gli afflitti, e sono la madre dei dolorosi» Con la fronte al suolo Mariedda piangeva e pregava.
«Mariedda», continuò la Madonna, «cammina, cammina. Troverai una casa che sarà tua, e dove nulla ti mancherà. Vivi là finché sia giunto il tuo giorno e non dimenticarti più di me.»
Ciò detto sparve. Sulle desolate campagne si sparse una luce di sole nascente, le siepi fiorirono, i ruscelli brillarono; un soave profumo di puleggio passò per l’aria, e una fila di merli dal becco giallo cantò su un muro vicino.
Quando sollevò la fronte dal suolo, Mariedda si trovò fra le braccia non più il cagnolino nero, ma un bellissimo bambino tutto color di rosa, le cui manine e i cui piedini sembravano fiori. Per un momento pensò di tornarsene in Corte con quel bellissimo bambino; ma le parole di Nostra Signora del Buon Consiglio le stavano fitte in mente: e tosto riprese a camminare attraverso la grande pianura improvvisamente fiorita.
Cammina, cammina e cammina, dopo lunghe ore si trovò davanti una bella casetta verde, nascosta in un boschetto d’aranci e rose. Dagli aranci pendevano grosse palle d’oro, e dalle rose salivano grandi fiori di corallo. Mariedda picchiò.
Una serva vestita in costume, con la sottana di scarlatto fiammante, il corsetto di broccato verde-oro e un gran velo bianco in testa, aprì e disse inchinandosi:
«Siete voi la padrona che s’aspettava?».
«Sì», rispose Mariedda sorridendo.
E da quel giorno, infatti, essa fu la padrona di quella casetta verde nascosta fra gli aranci e le rose. Nessuno passava mai là vicino; il mondo era lontano, lontano, eppure nulla mancava mai nella casetta: c’era sempre il pane che sembrava d’oro; l’acqua che sembrava d’argento; il vino che sembrava sangue; l’uva che sembrava grappolo di perle; la carne che sembrava corallo; l’olio che sembrava ambra; il miele che sembrava topazio; il latte che sembrava neve. E infine tutte le cose.
Mariedda era felice: pregava sempre, e aspettava il giorno promesso, nel quale sperava rivedere lo sposo diletto. Intanto il bellissimo bambino, che si chiamava Consiglio, cresceva come i piccoli aranci del boschetto, e rideva e correva su cavalli di canna, ai quali, sebbene non avessero che la coda, faceva eseguire rapidissimi volteggi.
Scorsero cinque anni. Un giorno, finalmente, passò vicino alla casetta verde una comitiva di cacciatori, che si erano smarriti in quelle campagne disabitate, e chiesero ospitalità a Mariedda.
Immaginatevi voi il batticuore, la sorpresa e la gioia di Mariedda nel riconoscere il suo sposo nel capo di quei cacciatori smarriti!
«Ecco giunto il giorno!», pensò trepidando. Ma non si fece conoscere, perché era alquanto cambiata e vestiva in costume. Però accolse graziosamente i cacciatori, fra i quali eravi anche don Juanne, il medico del diavolo.
Tutti furono incantati della buona accoglienza e della bellezza di Mariedda e di Consiglio. A tavola don Mariano, che sedeva accanto alla padrona, le raccontò la sua sventura, e le disse che si era pentito del suo atroce comando, che aveva fatto cercare la povera sposa per tutti i monti e le valli di Sardegna, e che, non avendola potuta ritrovare, ora egli era l’uomo più infelice della terra, tormentato dai rimorsi e dalle ricordanze.
Mariedda fu intenerita da questo racconto, e decise rivelarsi prima che i cacciatori partissero. Intanto accadde questo fatto straordinario, che dimostrò come la giustizia di Dio si riveli nelle più piccole cose. Sentite. Un cucchiarino d’oro del servizio da tavola era caduto per terra. Consiglio, che giocherellava attraverso le sedie, lo raccolse, e introdottosi sotto la mensa, così giocando, lo pose dentro la scarpina di marocchino ricamata di don Juanne. Poi se n’andò via, e dalla serva fu posto a dormire.
Quando si venne a sparecchiare, si notò la mancanza del cucchiarino d’oro, e questo non si poté rinvenire in alcun posto. «Bel signore», allora disse Mariedda al principe, «io ho dato ospitalità a voi ed ai vostri cavalieri.
Perché dunque mi si paga così?» E raccontò l’affare del cucchiarino d’oro, che, senza dubbio, era stato rubato da qualcuno dei cacciatori. Don Mariano salì su tutte le furie, e traendo la spada, gridò: «Cavalieri, qualcuno da qui ha rubato. Confessate la vostra onta o ve ne pentirete amaramente!».
Tutti negarono: don Mariano riprese: «Bene, bei signori! Frugherò io stesso le vostre persone, e guai al traditore indegno, che ha così ricompensato l’ospitalità di questa nobile dama. Lo trapasserò con la mia spada».
Detto fatto. Frugò tutti i cacciatori, e trovò il cucchiarino d’oro nella scarpina di marocchino ricamato di don Juanne. Invano questo si protestò innocente. «Messere», gli disse il principe, «voi morrete per mia mano.»
E stava per ucciderlo, quando Mariedda impietosita, chiese grazia per lui, e si rivelò con grande contentezza del principe. Commosso da questa scena, don Juanne si gettò ai piedi della nipote, che lo aveva salvato, e confessò le sue colpe.
Mariedda e il principe lo perdonarono; solo, in penitenza, gl’imposero di viver sempre nella casetta verde nascosta fra gli aranci e le rose, perché si pentisse ed espiasse i suoi peccati nella solitudine.
Non sappiamo se egli veramente si sia pentito: sappiamo però che egli non si mosse più di là; mentre Mariedda, Consiglio col suo cavallo di canna, la serva col suo costume e il suo velo, don Mariano e tutti gli altri cacciatori tornarono alla Corte, dove furono accolti con grandi feste, e dove vissero lungamente felici. Mentre passavano vicino agli stagni, quel pescatore che aveva cantato quando Mariedda veniva la prima volta ad Oristano, questa volta cantava così:
Uccelli che volate, che volate,
In compagnia di me,
Andate e ritornate,
Fatto han la pace la regina e il re.
Note:
[9] Leggenda pubblicata presso R. Sandon, Palermo, 1899.
[10] Antico nome di Oristano.
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