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gen
2009
Contos de foghile – Il fanciullo nascosto – Prima parte – (Grazia Deledda)
Il complotto si fece, come tutte le riunioni importanti che i parenti Coìna dovevano avere fra di loro, se a queste era necessario che assistesse il nonno, appunto nella cantina del nonno Bainzone.
Il nonno Bainzone era stato sempre un uomo giusto, di buona coscienza: ormai vecchio e quasi impotente passava i giorni accanto alla sua porta, come un idolo di legno messo lì a guardia della casa. Non parlava mai: passava il suo tempo a guardare e giudicare fra di sé la gente che attraversava la strada.
Viveva con la figlia minore, Telène, vedova d’un ricco massaio, e col nipotino Bainzeddu figlio di lei; ma continuamente gli altri figli e i nipoti e i pronipoti lo visitavano, specialmente per chiedergli parere e consiglio in certi gravi casi di coscienza, salvo poi a non dargli retta. Ma il solo pensiero che egli sapeva ciò che essi volevano fare, anche se ingiusto, sopratutto se ingiusto, acquetava la loro coscienza: così se qualcuno li rimproverava essi potevano rispondere pronti: il nonno non ha detto niente.
E questo bastava, per acquetare tutti. Da qualche tempo, però, il nonno non rispondeva neppure alle loro questioni: li guardava e li giudicava, fra di sé, come la gente della strada, e il suo silenzio li incoraggiava maggiormente. Tutti i giorni qualcuno di loro veniva: se la conferenza era di lieve importanza si svolgeva davanti alla porta; se no il nonno doveva alzarsi, aiutato dal parente, attraversare lo stretto androne su cui davano le porte della cucina e della domo ‘e mola, la stanza della macina per il grano, scendere i sette scalini ed aprire la cantina.
Nella cantina si poteva parlare con tutta libertà, senza essere ascoltati dai vicini di casa e dai passanti; e poi si beveva.
- Santone, coraggio, andiamo alla festa – gli diceva quel giorno battendogli lievemente le dita sulle spalle e conducendolo cautamente giù per i sette scalini Antoni Paskale, il più bello dei nipoti, un giovane alto e forte noto a tutti per la sua prepotenza.
Seguivano gli altri, dal passo pesante. Erano tutti vestiti di nuovo, e alcuni un poco alticci perché un pomeriggio di festa, il giorno della Pentecoste.
Il vecchio si lasciava portare, appoggiando la mano alla parete; ma il suo viso duro, nero, circondato da una grande barba giallastra che saliva fino alle tempia ove si confondeva coi capelli e con le folte sopracciglia a ricciate, e i grossi occhi gonfi, nerissimi, esprimevano una resistenza interna, un diffidare cupo, irriducibile.
Giunti alla porta della cantina parve esitare, prima di trarre la chiave che teneva sempre con sé; poi accorgendosi che Antoni Paskale tentava di frugargli in tasca si decise, e aprì tastando con le dita la serratura per trovarne il buco. La porta era grande e solida come un portone, fermata a metà, di dentro, con un lungo gancio di ferro arrugginito; l’altra metà si aprì, ne uscì un odore di sotterraneo, di formaggio e di vino, e apparve l’interno misterioso.
Per tutti quegli uomini e quei giovani forti che seguivano il nonno, il luogo era stato sempre ancor più misterioso e attraente d’un ripostiglio che esisteva nella casa di uno di loro, Paulu, il primogenito del vecchio Bainzone; si diceva che questi teneva là dentro nascosto un tesoro e perciò non dava mai a nessuno la chiave; si diceva poi che chi entrava con un dispiacere ne usciva allegro, e questo era vero perché c’era del vino forte e una provvista d’acquavite.
Tutti i giovani, passando, toccarono il palo del gancio, col quale s’erano esercitati, da ragazzi, fuggevolmente, nei giorni in cui si rimetteva il vino e la porta rimaneva un poco aperta. La luce pioveva da un finestrino alto inferriato spandendo un chiarore argenteo sulle botti nere dalla faccia rossa, allineate come altrettante sorelle.
Oltre le botti c’erano grandi orci e brocche, mensole, mucchi di oggetti smessi, scale a piuoli, e in un angolo un tino alto come una torre con sopra un pigiatoio a quattro anse ancora violetto di mosto.
Il primo a parlare, dopo che il vecchio sedette su uno scanno appoggiato al tino, fu Paulu il figlio maggiore, già pure lui anziano, coi capelli grigi. Gli altri si erano disposti qua e là, tutti in piedi però, chi appoggiato al tino ai lati del nonno, chi agli orci, coi visi illuminati da una luce vaga, lontana, che pareva più interna che esterna; un velo di pallore ove gli occhi sfolgoravano con più forte passione.
Solo Paulu dava le spalle alla luce: parlava quieto, rivolto al padre, ricordando con brevi parole la storia di una inimicizia che tormentava la famiglia. A causa di una eredità mal divisa i Coìna erano in lite con certi Bellu, parenti per parte di madre: i soliti orrori funestavano le due famiglie: sgarrettamenti e uccisione di bestiame, incendi, vigne e alberi divelti. Ancora non erano arrivati al sangue cristiano, ma erano sull’orlo dell’abisso.
Ambasciate con minaccie di morte andavano e venivano tutti i giorni; e il vecchio Bainzone aveva un bel vigilare la porta della sua casa onesta; le fondamenta erano rose e tutto minacciava di crollare.
- Ecco, se volete sentire l’ultima, – disse Paulu, senza mutare tono di voce, – l’avvocato ha mandato a dire che fra giorni esce la sentenza della Cassazione, che sarà favorevole a noi. Juanne Bellu, il caporione, dice che se questo sarà, troverà bene lui il modo di correggere la legge. E allora, padre, – aggiunse, chinandosi un poco davanti al vecchio, – questa scorsa notte mi ha segnato la porta con una croce di sangue.
Il designato sono io: il primo frutto maturo a cadere sono io, il vostro figlio primogenito.
Il vecchio teneva gli occhi ostinatamente chini a terra: con le mani nere appoggiate forte agli orli dello scanno pareva ascoltasse, sì, ma aspettando un momento opportuno per alzarsi e andarsene senza rispondere. Antoni Paskale lo guardava dall’alto; poi guardò in giro i parenti e a ciascuno fece un cenno un poco beffardo di no: no, non s’illudessero; il nonno non avrebbe mai acconsentito.
-Non c’è che un mezzo per salvarsi, – riprese il primogenito, chinandosi ancora di più sopra il vecchio, – far mettere dentro Juanne Bellu, finché esce la sentenza: così, se sta all’ombra, non si scalderà tanto -.
Gli altri risero; il nonno non sollevò neppure gli occhi.
- Adesso ve lo dico, padre: ma non vi arrabbiate. Facciamo una cosa… -
D’improvviso si sollevò senza poter proseguire: parve scoraggiato dall’attitudine del padre, e anche lui accennò di no. Forse la cosa pareva anche a lui impossibile. Ma Antoni Paskale aggrottò le sopracciglia, come per una minaccia, finta però; e con la mano sull’omero del nonno gli si chinò un po’ all’orecchio, dicendo con voce di scherzo:
- Nascondiamo Bainzeddu… -
Il vecchio dovette capire subito di che si trattava perché arrossì e alzò l’omero per scacciar via con disprezzo il nipote: questi però calcò meglio la mano, e si sollevò scuro in viso. All’occorrenza era uomo da non esitare a essere forte anche contro il nonno testardo…
- Be’, – riprese conciliante Paulu, – intendete di quello che si tratta, babbo! Non sono poi cose del diavolo! Nascondiamo dunque Bainzeddu spargendo la voce che dubitiamo ci sia stato preso e nascosto da Juanne Bellu, per vendetta Juanne viene messo dentro. Intanto arriva la sentenza, e lui, dentro, come dicevo, ha modo di masticare il pane del re e accorgersi che è molto duro. Avete inteso? -
Il vecchio aveva finalmente sollevato gli occhi lucidi e duri come perle e guardava suo figlio; due volte allungò l’indice verso di lui, due volte le sue labbra violacee tremarono fra la barba bianca; ma non pronunziò parola: riabbassò la testa e tornò a fissare l’ombra ai suoi piedi.
- Il ragazzo, s’intende, lo prendo con me, in casa mia – concluse Paulu intimidito. – Ho quel luoghicino… -
- Eh! Eh!
Qualcuno raschiò, qualche altro tossì; tutti sapevano del famoso nascondiglio della casa di Paulu; una casa antica che sua moglie aveva ereditato da uno zio ch’era stato lunghi anni bandito e s’era scavato quel nido come una talpa. Dunque non c’era da temer nulla per il ragazzo, che anzi avrebbe preso gusto a stare nascosto in quel “luoghicino”. Eppure Antoni Paskale, per spirito di contraddizione cominciò a dire:
- Per me, lo porterei all’ovile, al monte, all’aria aperta: c’è modo di nasconderlo meglio lassù. Una volta, ricordate, babbo grande, stetti nascosto una settimana nelle grotte di Punta Marina; avevo otto anni! C’è acqua d’argento, là dentro, e il vento che brontola come in casa sua. Mentre una volta che sono entrato nel buco di casa vostra, ziu Pà, ho starnutito come un gatto.
Ridevano tutti. Un cugino, senza sollevarsi dall’orcio a cui stava appoggiato, domandò coscienziosamente se la madre del ragazzo sapeva del progetto e lo approvava.
- Lo sa! Lo sa! – disse con accento di noia un altro. – È una donna, Telène! -
- E chi dice che è un uomo? -
Pareva che, in fondo, non tutti fossero pienamente d’accordo: sapevano tutti, in fondo, che zio Paulu sotto la sua calma nascondeva una rabbia tremenda per quella croce di sangue trovata sulla sua porta e che cercava un pretesto qualunque per far mettere in carcere Juanne Bellu. Si prestavano al gioco pericoloso di lui, ma la coscienza li morsicchiava un poco, senza che essi vi badassero poi tanto, li morsicchiava lievemente come un gatto che scherza.
- Allora restiamo intesi così; voi, babbo, non fate osservazioni: è una cosa, poi, che farà bene a tutti. Io, stasera, mando mia moglie a prendere il ragazzo, o lo manda sua madre da noi per qualche commissione. Vedrete che la storia farà bene a tutti, così Dio mi giudichi – concluse cacciando i pollici nella cintura e sollevando il viso con soddisfazione. Gli pareva già di vedere il nemico legato e vinto. – È una cosa che farà bene a tutti.
- Allora, zio, tocchiamo il polso a quella donna panciuta.
La donna panciuta era la botte ove si conservava il vino migliore. Uno dei giovani andò e lasciò cadere il vino rosso spumante in una mezzina, e da questa cominciò a versarlo in un bicchiere che porse allo zio. Qualcuno lo spingeva di dietro e il vino traboccava sgocciolando fino a terra; gli altri giovani si davano dei pugni per scherzo e due cugini che si volevano molto bene stavano a guardare con le braccia gettate l’uno sul collo dell’altro. Antoni Paskale non aveva mai levato la mano dall’omero del nonno; questi però, quando il figlio gli offrì a sua volta il bicchiere sgocciolante, tornò a sollevare gli occhi; guardò Paulu dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa, con le sopracciglia che gli tremavano per lo sdegno; poi si alzò dando un ansito che fece ammutolire tutti.
Cadeva la sera ed egli stava seduto davanti alla porta, silenzioso e accigliato. Dentro si sentiva ancora il rumore monotono della macina del grano e la voce esile di Telène che di tanto in tanto aizzava l’asino intorno alla mola: si lavorava ancora, dentro, sebbene fosse quasi sera e sera di festa.
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