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Arte e religioni della Sardegna prenuragica – Giovanni Lilliu [2]

Scritto da ztaramonte

Idoli di stile geometrico e volumetrico

(E’ possibile cliccare sulle immagini per vederle a dimensione originale)

Le ventisette statuine descritte nelle schede nn. 2-28 attengono ad un diffuso stereotipo esteticamente completo e realizzato in stile geometrico-volumetrico.

Diciassette sono scolpite su pietra: quattro in tufo (nn. 2, 7, 9-11,13), tre in marmo (nn. 4, 5, 14), le restanti sei in alabastro (n. 16), marmo (n. 24), caolinite (n. 8), arenaria (n. 15), granito (n. 22), gesso (n. 3) e steatite (n. 23). Cinque sono plasmate in argilla (nn. 12, 18-21) e cinque ritagliate in osso (nn. 17, 25-28).

Provengono, nove dalla provincia di Sassari: 1 da Olbia, località Santa Mariedda (n. 2), 1 da Muros-Su Monte (n. 3), 1 da Sassari-Monte d’Accoddi (n. 21), 2 da Alghero-Anghelu Ruju (nn. 23-24), 1 da Pérfugas-Sos Badulesos (n. 14) una da Torralba (12) e 1 da Ozieri (17) . La provincia di Nuoro ne ha restituito tre in località Polu-Meanasardo (nn. 4-5, 18) e quella di Oristano nove: 1 da Narbolia-Su Anzu (n. 6), 1 da Santa Giusta (n. 11), e 7 da Cabras, di cui 1 in località Conca Illonis (n. 20) e 6 in località Cuccuru Arrìus (nn. 7-10, 15, 19). Infine, nella provincia di Cagliari, una in ciascuna località, di Samassi-Sa Màndara (n. 22), Decimoputzu-Su Cungiau de Marcu (n. 16), di Villamassargia-Su Concali de Coròngiu Acca (n. 13) e le quattro di Santadi, località Monte Meana (nn. 25-27) e Tatinu (28).

Da luoghi sul mare o prossimi al mare derivano le figurine nn. 2-3, 6-11, 15, 19-21, 23-24 (quattordici in tutto). Nelle zone interne, più o meno distanti dalla costa, si sono avute le restanti tredici (nn. 12-14, 16-18, 22, 25-28), quelle di Meana-Su Polu (nn. 4-5, 18) nella remota regione montana. Aree di maggiore concentrazione, nel conosciuto, appaiono il Sassarese-Algherese (nn. 3, 21, 23-24), l’Oristanese (nn. 6-11, 15, 19¬20), il Sulcis-Iglesiente (nn. 13, 16, 25-28).

Nelle statuine è rappresentato un archetipo di divinità femminile, di forme “opulente”, ma non erotiche come nella Veneretta di Macomér, nelle quali l’attrazione sessuale è quasi rimossa per far luogo a una “carnalità” pura, astratta, risolta per masse e volumi plastici, rotondi ed elastici. Si coglie una sorta di concezione “circolare” del corpo femminile, aperta a pluralità di atteggiamenti e di movimenti delle membra, realizzati ingenuamente, senza però tradire il canone formale l’idea estetica di fondo indirizzata a rappresentare e a promuovere magicamente, attraverso la sacralità del turgore delle forme dell’idolo, l’abbondanza della natura e del mondo, una mitica età dell’oro all’alba della storia umana.

Nelle variabili “indipendenti” di modellazione delle figurine in discorso, oltre l’aspetto pieno e copioso del corpo femminile, sta fisso, come norma, e presente in tutti quegli esemplari – anche in quelli nei quali l’opulenza delle membra si attenua (nn. 20, 24-27) o svanisce del tutto (nn. 22, 28) – il disegno del capo, enfatizzato nella misura, e coperto da polos che è il segno della dignità divina dell’idolo. Il taglio cilindrico, squadrato e talvolta allungato della testa coperta da tiara, costituisce la nota assoluta che distingue nettamente le statuette “carnose” sarde dalla produzione ricca e varia di idoli “pingui” di altre aree culturali europee e mediterranee, più o meno contemporanee [32].

La proiezione di questo archetipo di statuetta pingue, nei vari luoghi reali ed evocati per la società dell’abbondanza, è precisata dagli spazi di provenienza, a cui le figurine erano funzionali nell’intento di fare esprimere al simulacro i bisogni e le aspirazioni delle comunità e dei singoli. Un gruppo di esse (nn. 6, 11, 14, 16, 19-20), rinvenute nei sedimi dei villaggi, erano in origine collocate nelle capanne d’abitazione come divinità tutelari di gente dedita ai lavori di campo per cui si auspicavano frutti ubertosi, in conformità anche del progresso tecnico introdotto dalla “rivoluzione agricola”. Le figurine deposte nelle tombe, fossero ripari naturali sotto roccia (nn. 3, 13, 25-28) o fossero grotticelle artificiali (nn. 2, 4-5, 7-8, 18, 23-24), fungevano da divinità psicopompa e rigeneratrice di vita in abbondanza anche nell’al di là. Il morto o la morta, sepolto rannicchiato nell’ipogeo n. 386 di Cùccuru Arrìus, col corredo di oggetti per il cibo necessario nel mondo degli spiriti, spruzzato di ocra rossa secondo un antico rito magico di restaurazione vitale, stringeva forte nella mano destra l’idolo dalla “alma Mater” neolitica, confidando in essa per la liberazione del maligno onde raggiungere i felici dominii dove la struttura dell’esistenza umana torna a fondersi misticamente nella struttura cosmica, nella primordialità esistenziale,  nel sacro che ha fondato il mondo giusta la concezione del primitivo. E della pratica del sacro in terra, in spazi riservati al culto della divinità dell’abbondanza, danno prova gli idoli nn. 22 e 21, il primo rinvenuto nell’ambito di un villaggio e il secondo presso il grande altare megalitico di Monte d’Accoddi.

Le statuine dimostrano questa divinità “carnale” in aspetti e momenti contigui alla femminilità intesa come procreatrice e nutrice. La dea, epifanica nella posizione stante (nn. 2-14, 18, 22-28), insediata in terra per farsi contemplare, quale dispensatrice di beni e di grazie. Nella posizione seduta (nn. 16, 19-21), sta pure accosciata con l’addome rigonfio tanto da sembrare incinta (n. 19) o in atto di partorire (n. 15). Infine trattiene il bimbo nato tra le braccia per allattarlo (n. 14). È la trasfigurazione della donna quale voleva la società del tempo, in un misto di cielo e di terra, un simbolo che vuole comporsi del mondo, il sentimento d’un contatto immediato con la realtà visibile e una sorta di esperienza mistica collegata con l’invisibile di cui l’uomo si sentiva partecipe [33].

Nel novero delle figurine stanti si stacca, per singolarità d’impianto e accento di assoluta volumetria, il gruppo di statuine litiche, intere, nn. 2-4, 6-11, sbozzate con accettine di pietra dura, levigate con raschiatoi di selce od ossidiana e poi a smeriglio, ricoperte il n. 5 da un velo di color bruno e da pittura rossa il n. 8.

La maggiore di queste immagini (n.8) presenta dimensioni in altezza, larghezza massima e spessore di cm 18, 10,5 e 8,7, la minore (n. 11) di cm 7,2, 4,2 e 3,7. Nei nn. 5 e 8 l’indice del rapporto altezza-larghezza (cm 18; 10,5; 7,2; 7,2) è di 1,71 inferiore di uno a quello della statuina n. 2 da Santa Mariedda. Mediamente lo scarto lunghezza-larghezza è di cm 5,1 (11, 91-6, 90) e la larghezza supera lo spessore di appena un centimetro (6,90-5,90). Risulta così un modello di figura corta, tozza e compatta che, schematicamente, appare suddivisa in tre volumi sovrapposti: testa compreso il collo, busto-addome, arti inferiori, ciascuna parte costituendo più o meno il terzo dell’intero corpo. In particolare, del corpo la testa occupa un tratto da non meno d’un terzo a quasi la metà, con che si deformano le proporzioni anatomiche, ossia si alterano i dati della realtà per far luogo a un atto creativo dell’artigiano dietro la suggestione d’un arcano significato ritenuto presente nell’aspetto visuale dell’immagine della dea.

La struttura della testa è cilindrica, ristretta o meno al capo appiattito orizzontalmente (nn. 1-3, 6) o lievemente bombata (n. 13) o, per lo più, inclinata dalla fronte alla nuca (nn. 4-5, 7-11). In tutte le figurine copre la testa un’acconciatura interpretata o come stilizzazione di capigliatura sciolta, spiovente alla tempia e dietro la nuca a zazzera, oppure come un tiara o polos. Alla prima interpretazione, che anch’io seguo nella descrizione delle figurine nelle schede, potrebbe dare argomento la presenza nell’idolo di Su Anzu (n. 6) di sottili filamenti graffiti in modo scomposto sulla nuca, supposti lunghi capelli d’una chioma scarmigliata. Va opposta però l’osservazione che tali striature appaiono soltanto a tratti sul dietro del capo e non anche ai lati del viso nella ricaduta d’una capigliatura sciolta. Per di più linee simili formanti una banda verticale riempita di trattini orizzontali e confusamente intrecciati, variano, a mo’ di trasandata decorazione, il braccio destro dell’idolo. Per la più suadente ipotesi del polos figurato come un ricco e lussuoso copricapo in tessuto, adeguato all’onore e alla gloria della divinità, stanno le acconciature degli idoli nn. 3 e 8. Nel n. 3 la tiara cilindrica che ricopre il sommo della fronte, l’occipite e i lati del volto mettendolo in evidenza col risalto del contorno, mostra la sommità decorata in disegno di cerchio raggiato che vuole essere un fregio ricamato della berretta. E l’emergenza conica delimitata da incisione, col piatto del cono fornito di incavo a livello di superficie dell’occipite, potrebbe avere accolto un fiocco o altro ornamento posticcio. Ancora più persuasiva per riconoscere una polos è l’agghindatura del copricapo n. 8. Un fregio ricamato da rilievi orizzontali gira la sommità della testa annodandosi nel mezzo della fronte con brevi cordoncini verticali. Dal fregio a cercine scendono coprendo gli orecchi e dietro la nuca per sfrangiarsi sopra le spalle, bande a largo fiocco nastriforme appeso a un nodo oblungo nella zona dell’occipite e in quella della tempia a un’estesa guarnizione composta da tre segmenti circolari con al centro un riquadro ornato da zigzag. Il risalto marginale del copricapo sulla fronte e ai lati mette in evidenza, inquadrandolo, il volto delle figure di disegno ora marcatamente quadrangolare (nn. 3, 6-7, 18), ora trapezoidale (nn. 2, 5, 11), ora ovale (nn. 4, 13). Il viso si presenta leggermente rigonfio (nn. 2 ,6, 11, 13, 18) o di forte rilievo con prognatismo più o meno accentuato (nn. 4,5). In quest’ultimo caso il profilo facciale sfugge obliquo verso la fronte, seguendo l’inclinazione del capo all’indietro, e pare che la statuetta guardi verso l’alto, assente dal mondo terreno in ragione della sua natura divina [34].

Tranne la mancata rappresentazione degli orecchi in tutte le figurine, degli occhi nel n. 13 e della bocca nel n. 18, nel volto sono presenti i tratti fisionomici, più o meno stilizzati in modo e in segno non di rado diversi.

La fronte, di disegno per lo più rettangolare (nn. 3, 6, 8-13, 18), ma anche trapezoidale (n. 2), triangolare (nn. 5,7) e semicircolare (n. 4), appare  piatta (nn. 3, 13) e bene scolpita (n. 4) o più o meno bombata (nn. 2-5, 8-9, 18), in armonia con lo stile “rotondo” delle statuette. Stilismo irrinunziabile e guida, nella parte superiore, della bipartizione simmetrica della figura è quello dato dall’incrocio ortogonale tra l’arcata sopraccigliare e il naso (lo stilismo cosiddetto della faccia a T). L’arcata è disegnata a livello nastriforme rettangolare continuo, più o meno largo e marcato nel rilievo (nn. 3, 13, 18); soltanto nel n. 2 la linea si incurva alla radice del naso per formare due distinte occhiaie a profilo convesso, con ciò conformandosi alla curvilinearità della struttura figurale. Al di sotto dell’arcata sopraccigliare gli occhi sono segnati o da un rettangolo inciso con un puntino al centro indicante la pupilla (n. 3) o da minuscole fessure (n. 2) o da lunghe incisioni orizzontali ellittiche (nn. 4, 8, 11,18). Il naso a pilastrino trapezoidale (nn. 2, 5, 6, 8 ) o rettangolare (nn. 2, 13, 18) è di proporzioni normali e si colloca giustamente tra arcata sopraccigliare e bocca, corto e dal dorso convesso per lo più (nn. 7-11), concavo, e con la punta in su nel n. 4 e nel n. 8. La bocca è variamente plasmata: a piccola fessura orizzontale (n. 2); a corta e sottile incisione tra labbra tumide (n. 6) che limitano anche il lungo e profondo solco orale del n. 4; a breve e marcato taglio orizzontale (n. 13) entro  labbra rilevate nel n. 11, mentre nel n. 5 la lunga e sottilissima linea incisa della bocca è racchiusa da due piattine o listellini indicando le labbra; infine l’incisione della bocca prende l’intera larghezza del viso nel n. 3. Le gote si presentano rigonfie (n. 4), enfiate (n.8) e spiaccicate (n. 11). Il mento si presenta breve e convesso, attaccato al busto (n. 3), breve e rigonfio (n. 4), a tozza piegatura diviso da lieve solcatura dal collo (n. 5) alla stessa guisa che in nn. 6 e 7 dove lo stacca un’incisione, pronunziato in lieve convessità con solco profondo divisorio dal collo nel n. 13. Il collo è corto e floscio (n. 2), cortissimo (n. 4), a piegatura tozza (n. 5), basso e rigonfio (nn. 6-7), massiccio e turgido (n. 8), grosso e solido (n. 13). Si può dire che sul viso – parte del corpo rilevante per significato espressivo e adatto al disegno di particolari – gli artigiani hanno lavorato, con estro e fantasia, in piena libertà come è dell’arte popolare, anche nel prodotto indirizzato al sacro.

Viceversa essi si dimostrano abbastanza ligi allo standard nello scolpire il resto del corpo delle figure che lo conservano (nn. 2-4, 6-11). Nettamente staccato dalla testa, il corpo è strutturato in due volumi sferoidi divisi all’ingiro da solcatura in due masse plastiche, elastiche, “a cuscinetto”, quella inferiore più ampia della superiore, tranne che nel n. 2. Nel dorso la superficie è liscia e unita salvo la lieve rientranza nel mezzo che distingue i due blocchi “carnosi”, davanti è mossa e articolata sia pure essenzialmente da alcuni dettagli anatomici. Consistono, questi, nel blocco superiore dal petto rigonfio (nn. 3-4, 6-11) o spiaccicato (n. 2), compatto (nn. 2-3, 8 ) o interrotto dal solco mediano che lo divide in due prominenze turgide alludenti ai seni (nn. 4, 6-7, 11), e dall’addome e dal bacino punteggiati in disegno di triangolo (nn. 2, 6-8), ellissi (nn. 3-4), poligono (n. 11), in forma di massa rotonda, molle e cascante, compressa tra il petto e il solco che segnala divisione degli arti inferiori. Questi ultimi sono condensati nel volume sferoide inferiore spianato alla base per l’appoggio in piano della statuina. Cosce e gambe, apode tranne che nel n. 6, sul davanti si presentano in forma di grosse palle ovoidi. Nel retro, al di sotto della spalle riunite, sporge la convessità compatta dei glutei, prorompenti nel n. 8, l’unica statuina del gruppo in esame fornita di piede, un minuscolo rilievo rettangolare alla base, in destra (il piede sinistro curiosamente non è rappresentato). I due sferoidi del corpo, separati dalla rientranza mediana, vengono riuniti ai fianchi della figura dagli arti inferiori. Bracci e avambracci rappresentati in un blocco conico rovescio allargato alle spalle (nn. 2-3, 6-7) o cubico (n. 4), sono chiusi in basso dalle mani per lo più piccole e tondeggianti (una grande e piatta nel n. 4), con le cinque dita scolpite rigidamente, unite “a pettine” (nn. 2-4, 6-7), nel n. 8 il pollice divaricato, inespresso nel n. 11. Gli arti superiori scendono, aderenti ai fianchi, dalle spalle a poco sopra la base, verticalmente (nn. 2, 4, 6, 11) o a breve obliquità in avanti (nn. 7-8). Fa eccezione la statuina n. 3 da Su Monte, la quale mostra le braccia corte e carnose con una mano ricondotta al fianco destro sotto l’addome a cui aderisce ripiegandosi ad angolo acuto la mano sinistra.

Non mancano parziali rispondenze stilistiche e formali al gruppo di figurine in esame in aree culturali esterne alla Sardegna. Il più vicino confronto, cui corrisponde la più vicina regione geografica, è dato dalla statuina stante, in serpentino, ora nel British Museum, rinvenuta a Campu Fiurelli-Grossa, in Corsica [35]. Simile è la costruzione del corpo a due sferoidi sovrapposti, qui separati da un cordone all’ingiro, ma quasi identica è la struttura del blocco inferiore a base piana con gli arti “carnosi” ovoidi e il triangolo dell’addome e delle pelvi [36]. L’idoletto è stato considerato un prodotto d’importazione dalla Cicladi [37], per quanto – si è opposto – non risultasse presente la plastica in steatite (ma la materia della statuina corsa non è la steatite) in quelle Isole, se non in gruppi supposti “cicladici” in Attica. Da qui anche l’ipotesi che da questa regione e non dalle Cicladi potè giungere la figurina di Campu Fiurelli [38]. Ma non parrebbe più ragionevole e accettabile l’ipotesi della provenienza dalla Sardegna nella quale, come stiamo vedendo, è consistente la produzione di statuine congeneri a quella corsa ascritta a fase evoluta del Neolitico e a tempi non molto lontani del III millennio a.C.? [39].

Lo schema plastico della parte inferiore delle statuine sarde con l’estremità degli arti appiattita ha riscontro anche in una piccola statuetta marmorea di “Genitrice universale”, con braccia conserte al petto, rinvenuta nei pressi di Sparta, in livello di abitazione, venerata, come altri idoli “carnosi” del Continente greco all’interno della casa [40]. Il n. 8, per il modellato a segmento sferico delle gambe con abbozzo di piede a tondino rilevato, presenta una qualche somiglianza con un idolo marmoreo, Neolitico come il precedente, rinvenuto a Malta, ma di probabile importazione dalla Tessaglia [41]. Anche una figurina in terracotta di Hacilar IC-D, della metà del VI millennio a.C., mostra la stilizzazione degli arti inferiori “volumetrici” con base piana, sia pure in maniera più punteggiata che negli idoli sardi (tre incisioni a V sovrapposte sotto l’addome vogliono sintetizzare la zona pelvica) [42].

È tratto caratteristico delle figurine grasse sarde quello delle braccia che scendono lungo i fianchi poco sopra la terminazione inferiore piatta. Posizione per così dire dell’attenti, riscontrabile in idoli d’argilla di Hacilar, del Neolitico recente: 5400 a.C. (Ch. ZERVOS, Naissance, II, p. 402, 593-595.). Se ne distacca il n. 3 che presenta la mano destra poggiata obliquamente sull’anca e la sinistra ripiegata a toccare l’addome. È questo l’atteggiamento delle braccia anche nelle statuine stanti maltesi, in calcare, dal tempio di Hagiar Kim [43] e in alabastro dall’ipogeo sepolcrale-templare di Hal Saflieni [44]. Alla figurina di Su Monte quelle di Malta, forse della fase di Gigantija – 3300/3000 a.C. – rispondono pure per la forma conica delle braccia con le mani stilizzate “a pettine” e il modellato a sezione sferica degli arti inferiori. La posizione indicata degli arti superiori è presente altresì nella statuina in terracotta, con seni esondanti, di perfetto naturalismo, detta “Venere di Malta”, dal tempio di Hagiar Kim, stilisticamente vicina a idoli in argilla del Neolitico tessalico (Sesklo) e anatolico (Hacilar) [45]. La si rivede in una figurina fittile antico-neolitica -5000-4000 a.C. – da Gradenica nella Bulgaria nord-occidentale.

Agli idoletti stanti analizzati si accordano del tutto stilisticamente nell’intera fattezza “plastica” del corpo, le statuine nn. 14 e 16 in pietra, soltanto per il modellato dell’addome e degli arti inferiori il n. 20 in argilla. I nn. 14 e 20 presentano lo schema della dea con le braccia conserte al petto. Tutte e tre le figurine stanno in posizione assisa, ossia, come ho detto, la “Grande genitrice” della vita e della morte, si è come stabilita in terra, anche se avendo il capo inclinato all’indietro cui corrisponde il profilo obliquo del viso, guarda assorta in alto da dove il mito la vuole venuta (v. nn. 14 e 16).

Gli idoli di Pérfugas e di Decimoputzu mostrano la testa cilindrica coperta da polos, più marcato nel secondo, il volto rispettivamente  quadrangolare e trapezoidale segnato fortemente dallo stilismo a T, dagli occhi a incisione orizzontale più piccola del n. 16, dal naso a pilastrino col dorso arcuato, dalle gote enfiate, dal mento prominente sotto la bocca a breve e sottile taglio orizzontale nel n. 14 (manca nel n. 16). È simile nelle due statuine il blocco “volumetrico” della parte inferiore del corpo con le cosce-gambe a segmento sferico, più articolate dal solco divisorio nel n. 13 che presenta il deretano più pronunziato, steatopigico, finente in piccoli embrionali piedi a tondino liscio nel n. 13, segnati dalle dita “a pettine” nel n. 16. In ambedue le immagini le braccia sono robuste e polpose, con mani “a pettine” e il busto rigonfio, liscio nel n. 13, ravvivato dal graffito sottile delle mammelle ad ampio doppio cerchio concentrico nella Dea di Decimoputzu, unica ad avere rappresentati i seni tra le statuette “adipose” sarde.

Salvi i connotati locali di quest’ultimo idolo, che è di alabastro (roccia non conosciuta in Sardegna), non gli mancano riscontri di dettaglio in statuine di area mediterranea e greco-continentale, danubiana e anatolica. Schema di braccia conserte al petto; modellato di zona pelvica e forma degli arti inferiori sono abbastanza vicini in un idolo femminile di pietra, Neolitico, da Gortina-Creta [47]. Una figurina di calcare duro da Sparta-Laconia, del Neolitico antico, si confronta per il disegno del busto con le braccia ripiegate orizzontalmente al petto e mani con le dita “a pettine”, stilismo ripetuto nei piedi [48]. Altra statuina in calcare duro da Sparta, stesso stile ed età della precedente, si confronta per il modellato del corpo del ventre all’estremità degli arti inferiori, qui apodi, a taglio netto [49], particolari presenti in un terza statuina litica, con le braccia conserte al petto, pur essa dal Neolitico antico e della stessa località [50]. Dettagli formali più o meno conformi anche in un idolo marmoreo, steatopigico, da Dea Makri, corrispondente al periodo Protosesklo [51]. Forma opulenta, posizione seduta, ampio deretano, ventre e zona pelvica a triangolo, cosce rigonfie e gambe ristrette verso i piedi segnati da dita “a pettine”, in statuina fittile dipinta sul corpo, dal santuario di Poduri-Dealul Ghindariu-Moldavia (Romania orientale), del periodo Cucuteni iniziale: 4800-4600 a. C. [52]. Sono simili statuette fittili non decorate del santuario di Sabatinivka II, nella valle del Bug meridionale nell’Ucraina Occidentale, primo periodo Cucuteni-Tripolije: 4800-4600 a. C. [53]. Per il confronto anatolico, vale la figura femminile marmorea da Beycesultan, supposta del tardo Neolitico, di notevole somiglianza con la Dea di Decimoputzu [54]. Quanto allo stilismo delle dita delle mani “a pettine” in figurine della Grecia e cicladiche del Neolitico e del cicladico antico I, si possono addurre numerosi esempi [55].

Il pregio della statuetta di Pérfugas, oltre che nella perfetta coerenza stilistica nel genere, consiste nell’eccezionalità tra le figurine femminili “pingui” sarde. È assisa in funzione dell’atto che la caratterizza. Infatti porta in grembo, stretto con ambe le braccia, un bambino, messo di traverso al corpo della madre per succhiare il latte dalla mammella sinistra. La Dea è dunque rappresentata nell’aspetto di nutrice, di kourotrophos come in statuette più o meno contemporanee del mondo mediterraneo e di quello continentale balcanico, elladico, danubiano e dell’Asia anteriore. A confronto tipologico si porta una figurina a “tavoletta”, tutta tratteggiata, dalla necropoli di Hagia Parasckevi, dell’antico cipriota: 2300-2000 a.C. [56]. Il bimbo qui è avvolto in un sacco dal quale emerge soltanto il viso. Nel gruppo si vorrebbe vedere una coppia divina. Da citare, a riscontro, la statuina fittile di madre col bambino di Rast, della cultura di Vinca [57] e la c.d. “Madonna di Gradac” (Valle Morava, Jugoslavia meridionale), che allatta il bambino con la mammella destra [58]. Questa statuina in argilla, di circa il 5000 a.C., ostenta braccia poderose tendente all’adipe e le mani stilizzate a “pettine” come nella Dea di Pérfugas. Vi è chiaro il tema del nutrimento nella grossa mammella piena di latte. Per il Continente greco si propone la Dea con bimbo, in marmo, da Patrissia-Atene, del Neoli- tico antico [59].

Il gruppo è di impianto basso e tozzo, con membra “pingui” sferoidi. Si aggiunge un gruppo, di argilla, da Tsangli-Tessaglia, coevo all’idolo di Patrissia [60]. È ben nota, infine, la mossa coppia madre-bimbo, in terracotta, da Hacilar [61].

La statuina di Dea madre seduta, in argilla, da Conca Illonis (n. 20) ripresenta lo schema delle braccia ripiegate al busto dell’idolo di Decimoputzu. Il petto è però largo e meno rigonfio, le braccia normali, senza indicazione di mani, unite orizzontalmente come in idoli cicladici del tipo Plastiras: a, tipo Cicladico I, 3200-2700 a.C. [62]. Maggiore è l’accordo formale con la statuina di Su Cungiàu de Marcu per il modellato del triangolo inguinale assai esteso e marcato, e degli arti inferiori a segmento sferico con

accentuata solcatura divisoria. Singolare è nella figurina di Conca Illonis il modo di rendere i piedi a spatola separati dalle cosce con una netta incisione a uncino, e le dita segnate da brevi tacche angolari perpendicolari alla base piana della figurina. Nella stessa maniera i piedi sono espressi in un idolo stante, in calcare, anatolico, che si avvicina alla nostra statuetta anche per lo schema delle braccia che sono però carnose e non congiunte, il taglio del triangolo pubico, la forma degli arti inferiori spianati alla base: Neolitico, V-IV millennio a.C. [63], mentre il modo di rendere le dita dei piedi riappare in altra figurina in terracotta, del Neolitico antico, stile 3β, da Cheronea-Focide [65].

Anche l’idoletto frammentario da Monte d’Accoddi (n. 21), in argilla, sta in posizione seduta a terra. L’insieme del corpo residuo – busto cilindrico e arti inferiori ovoidali come i glutei – è molto simile nella forma e nello stile a idoli in terracotta, neolitici, dello strato VI di abitazione sotto il palazzo di Cnosso a Creta [66]. Per il modellato dei glutei tornano a riscontro una statuina fittile assisa con l’intero corpo ornato da linee dipinte in nero, da Trifesti (Iasi-Romania), di fase Cucuteni B:3800-3600 a.C. [67] e l’amuleto che riproduce i glutei di forma ovoide, rinvenuto, con statuette grasse, nella sala dipinta a spirali rosse di Hal Saflieni-Malta: 3600-3300/3000 a.C. [68].

Dalla statuina n. 21 e dalle precedenti la figurina in argilla n. 19 da Cùccuru Arrìus – ferma restando la posizione assisa, l’opulenta massa plastica dei glutei assai prominenti (steatopigici) e la rotondità del busto nel quale è appena accennato il seno – si distingue per il braccio destro ripiegato al gomito in direzione dell’addome, le gambe un po’ divaricate, ma soprattutto per il rigonfiamento prorompente del ventre con l’ombelico in evidenza. Giova rilevare la grande somiglianza dell’idoletto di Cùccuru con la figurina femminile di terracotta, seduta, di forma “grassa”, con le braccia portate a stringere i seni, da Çatal Huyuk VI: antico Neolitico-6000/5000 a.C. [69]. Assai vicina anche la coeva e stilistica¬mente simile statuina fittili, assisa, di Dea dallo strato II di Çatal Huyuk, che tocca con la mano il seno destro e appoggia la sinistra sulla coscia [70]. La Dea gravida in versione artistica, simbolo del nesso fertilità del suolo-potere generatore della donna, si presenta pure in idoli d’argilla, di forma opulenta, le mani poggiate sul ventre rigonfio, da varie località della Tessaglia: Neolitico antico 6300/5800 a.C. [71].

Da Cùccuru Arrìus proviene la straordinaria statuetta in argilla n. 15, purtroppo molto frammentaria, che rappresenta la Dea partoriente. La figura sta inginocchiata, con i piedi all’indietro accavallati e, sul davanti, fra le cosce largamente aperte espelle il frutto del grembo, ancora informe, stilizzato con una protuberanza conica dalla punta tondeggiante. Per la posizione in ginocchio con i piedi dalla punta ricurva rivolta indietro, la statuina di Cùccuru evoca, senza alcun rapporto diretto, lontanissime reminiscenze di statuine paleolitiche francesi, che si suppongono rappresentate in atto di partorire. In una, da Tursac-valle della Vézère, si scorge una sporgenza conica alla vulva [72]. È ben nota, per essere il più antico esempio del tipo di Dea madre mediterranea su trono fiancheggiato da animali, la figura femminile dal corpo voluminoso, assisa in trono (il trono del parto) affiancato da felini, dal santuario di Çatal Hüyük, ascritta al livello II dell’antico Neolitico anatolico: tra le gambe emerge la testa tondeggiante di un bambino che nasce [73]. Simile scena in un frammento di corpulenta Dea in trono tra animali, da Hotãrani-Romania, cultura Vinca, fase Vadostra II: 5000 a.C. [74].

Si inscrivono nello stile volumetrico le statuine n. 24 (in marmo) e nn. 25-27 (in osso), ma soltanto per la forma della testa cilindrica con volto squadrato e allungato coperto da polos e l’accentuazione plastica, peraltro non comparabili con le masse esondanti degli idoli grassi, del triangolo pubico, delle cosce e dei glutei. Per il resto il corpo è modellato in fattezze normali e quasi armoniche nel rettangolo del petto un poco rilevato e girato dalle braccia in lieve risalto con le mani unite (nel n. 27 sono segnate le dita a pettine) e nel bel profilo ovale dagli arti inferiori. Caratteristico il restringimento del tronco a vitino di vespa sopra le anche. Sono rappresentati i piedi sommariamente (ma non le dita degli stessi), riuniti in un trattino trapezoidale diviso dalle gambe nel n. 25, staccati dalle gambe e tra di loro nei nn. 24 e 26 (qui i piedini emergono all’esterno a placchetta appuntita).  Va infine osservato quanto agli elementi fisionomici nel viso, che tutte e tre le statuine in osso di Monte Meana osservano il canonico stilismo a T col naso lungo e marcato pilastrino, e che nei nn. 26 e 27 sono incisi occhi e bocca non rappresentati nel n. 25. A parte la singolarità delle figurine in questione che non consente pieni riscontri formali in plastiche esterne all’isola, non è tuttavia da trascurare, come tendenza artistica di epoca, per il profilo ovale anche-arti inferiori forniti o meno di piedi, il raffronto con idoli c.d. alati, in argilla, della Bulgaria, della metà del V millennio a.C. [75] e della Moravia già sovietica, del tardo Cucuteni, 3500 a.C. [76]. La stessa forma ovale degli arti inferiori divisi da larga solcatura verticale al triangolo pubico in evidenza, quale nel n. 25 da grotta Meana, torna in una statuetta marmorea da Paros, tipo Louros, fase grotta Pelos, alto cicladico I:3200-2700 a.C. [77].

Al n. 25 poi, per il disegno del petto racchiuso tra braccia in rilievo che si congiungono orizzontalmente sopra il triangolo pubico e per la forma dei piccoli piedi prominenti all’esterno, si avvicina un idolo Neolitico in marmo, da località sconosciuta delle Cicladi [78]. Premessa, infine, la disparità stilistica e nelle fattezze della struttura del corpo voluminoso, per quanto riguarda la forma cilindrica e allungata della testa, lo schema delle braccia ricondotte al petto con le mani e le dita segnate a pettine, il disegno molle del triangolo pubico e delle anche, un noto idolo in marmo dall’Attica con disdice al confronto, seppur lontano, con la figura n. 27 da grotta Meana [79].

Di quest’ultimo idoletto il n. 28, pure in osso, dal riparo sotto roccia di Tatinu, rappresenta l’estrema semplificazione. Della figura della Dea rimane soltanto il “significante” della testa cilindrica del lungo viso segnato da naso e bocca, coperta dal polos. Il resto del corpo è punteggiato astrattamente da un listello conico arrotondato nell’estremità inferiore, un modo di renderlo, riferito però esclusivamente agli arti inferiori, applicato alle statuine di stile planare a busto compatto di cui appresso (nn. 39-40, 43, 47-49, 61, 78-80). Con sigla analoga, indirizzata a figurare il “principio femminile”, millenni prima dell’idoletto di Tatinu un artista paleolitico scolpì su zanna di mammuth una silhouette a lunga testa conica e collo dal quale pendono significativamente grosse o oblunghe mammelle. Il rimanente delle membra si esprime con un bastoncino cilindrico rastremato e stondato in basso [80].

Chiudiamo la rassegna delle sculture di stile volumetrico col betilo antropomorfo femminile n. 22, da Sa Màndara. Anche in questo eccezionale artefatto il segno della Dea è affidato alla cifra della testa troncoconica, con viso oblungo variato dallo stilismo a T e dagli occhi incisi a mandorla, ricoperta dal simbolo di dignità divina: il polos. La restante struttura corporea è simulata in astratto dal masso di pietra naturale di forma ovale forse per evocare la natura germinale, procreatrice, della Dea.

È singolare, data soprattutto la posizione alta poco al di sotto della testa, la fascia ornata zigzag che corre intorno al solido betilico. Si resta incerti tra l’ipotesi di pura decorazione e quella d’un cinturone quale, ad esempio, in un idolo maschile seduto su sgabello, in terracotta, dall’Ungheria cultura di Theiss: intorno al 4000 a.C. [81]. Lungo la fascia si notano ancora, come nel dritto della pietra, tracce di colore rosso, il che fa ritenere l’idolo all’origine dipinto se non in tutto in parte, allo scopo di ravvivare il simulacro di culto, similmente a quanto si riscontra nella statuina n. 8 di Cùccuru Arrìus.

Circa il tipo dell’artefatto di Sa Màndara, a betilo con testa antropomorfa, si può citare, a riscontro, la statuetta di calcare rinvenuta in una tomba a forno di Arnesano-Lecce, presso un defunto deposto in posizione rannicchiata, con corredo di bei vasi rossi lustrati di stile Diana-Bellavista, del tardo Neolitico: circa 4000 a.C. [82]. Altro utile raffronto è suggerito dall’idolo in marmo, con rappresentazione della sola testa cilindrica con volto ovale, da Sesklo, Neolitico recente. Il corpo, reso a colonna cilindrica, verso l’estremità inferiore è dipinto con disegni lineari rossi e neri [83].

Esaurita la necessaria disamina comparativa, all’interno e con l’esterno, delle statuette delle “Dea dell’abbondanza”, è utile proporre alcune considerazioni, appena accennate in precedenza, sul piano sistematico in quanto, come insegna A. Leroi-Gourhan [84], le figurazioni sarde, al pari di ogni altro prodotto artistico di civiltà preistorica, sono il riflesso di una situazione ideologica nella quale l’estetico, il religioso e il sociale sono intimamente legati.

Da ciò che ho detto sopra circostanziatamente delle immagini di stile volumetrico, appare che gli artigiani le hanno prodotte avendo già maturato se non proprio una piena coscienza una forte tensione estetica e, nei fatti, una non irrilevante tecnica artistica. Essi mostrano capacità di modellazione e composizione figurativa, più apprezzabile in quanto il lavoro riguarda plastiche a tutto tondo nelle quali sono molteplici i punti di vista e dunque più esteso e attento l’intervento dell’artista. Fermo restando il plafond concettuale e intellettuale – la rappresentazione d’una Dea dalle forme opime – interviene una assai articolata interpretazione plastica e disegnativa (nei particolari fisionomici e di addobbo) del tema canonico, normativo in quanto mitico-mistico [85].  Si colgono differenze leggere di stile che si spiegano ovviamente con lo spirito individuale dell’artigiano che concepisce e realizza le differenti opere. Il sentimento magico e il fondo artistico istintivo non impediscono agli scultori e ai modellatori dei piccoli artefatti mobili di porsi su un piano di ricerca della verità naturale e di osservazioni non disattente della figura umana nell’insieme e nei particolari del corpo che stanno alla base della rappresentazione dell’idolo: Dea e donna indifferentemente. Ciò che nelle figurine appare trasgressione della naturalità e della normalità (la sproporzione metrica tra le parti del corpo e in particolare l’enfasi della testa, la voluminosità delle membra specie di quelle che più evocano la natura procreatrice della Dea), non è difetto di esperienza, applicazione tecnica e inventiva. Si tratta, invece, di espressionismo, ossia di voluta – anzi imposta dal mito – accentuazione espressiva plastica di tratti corporei significativi dell’essenza della divinità femminile e materna la cui trasfigurazione in immagine terrena produce un fenomeno di identificazione (la comunità si identifica attraverso i valori riconoscibili nell’icona) e costituisce un messaggio di comunicazione sociale che è innata nelle aspirazioni e nelle esigenze di chi aggiunge all’attività utile quella gratuita dell’arte [86].

In nessuna delle figurine in esame, la fattura cade nella banalità o nella routine (si può dire che ciascuna statuina è il frutto diversificato di un singolo momento creativo e tecnico dell’artigiano). Alcune però offrono una visione plastica superiore ed eccellono in raffinatezza esecutiva. Il capolavoro lo costituisce, senza alcun dubbio, l’idolo n. 8 di Cùccuru Arrìus nel quale nella simmetria compositiva della forma si aggiunge l’elegante, rigorosa e preziosissima decorazione del polos della Dea. Anche l’idolo seduto di Decimoputzu n. 16, di grande compostezza, risalta per lo studio della forma più articolata e la geometrica e nitida grafia delle mani, dei seni e dei piedi. Di un artigiano virtuoso è il gioco plastico dei piedi incrociati, che simulano un nodo a fiore, nel rovescio della statuina partoriente da Cùccuru Arrìus n. 15. Infine ricercate e di buon gusto, tendenti alla naturalezza delle proporzioni corporee pur con qualche sfasatura, sono le figurine nn. 24-26 (ma soprattutto la n. 25). La diffusione geografica delle statuine, per lo più in luoghi aperti e di suoli feraci, allude all’esistenza di botteghe dislocate nel territorio. Una di queste, di effervescenza creativa più forte in invenzione ed esecuzione, è facilmente identificabile nel compendio oristanese come indicano la maggiore concentrazione numerica (epicentro nella zona circumlagunare di Cabras) e l’uso di materiali locali in pietra e argilla. Le figurine in osso della grotte di Meana e Tattinu (nn. 25-28), coerenti per stile, materia e ambiente, suggeriscono l’attività d’un’altra bottega nel territorio di Santadi-Sulcis. Rimane problematico l’accertamento dei luoghi di fattura per le restanti statuette dislocate in diverse zone non di rado distanti tra di loro nelle quali si può essere soltanto allogata, a richiesta di committenti, una produzione artistica di importazione. Il caratteristico profilo prognato del volto e lo stilismo dell’arcata sopraccigliare a largo nastro scolpito del capolavoro n. 8 da Cùccuru Arrìus e delle belle statuine di Polu (nn. 4-5), Su Cungiàu de Marcu (n. 16) e di Sos Badulesos (n. 14), riconducono gli artefatti – tutti in pietra e di ovvia omogeneità plastica e tecnica – all’attività d’un eccellente artigiano operante nell’esteso e ricco insediamento di Cùccuru Arrìus, e tanto noto da avere procurato domanda del suo prodotto nella zona interna di Meana, nel Campidano di Cagliari nel sud dell’isola e nel nord nella regione montana dell’Anglona.

Ragione ed impulso alla produzione e alla circolazione diffusa delle statuine di Dea Madre era, prima di tutto, il sacro. Il sacro – mito, religione, magia – permeava le comunità del tempo, modellava la vita interiore dei singoli e dei gruppi e si esternava nei luoghi dell’attività materiale e della morte dove l’arte, con i suoi sogni, aiutava a vincere il dominio del terrore e a recuperare il dominio rassicurante ed efficace dell’esistenza umana nella continuità ultraterrena [87]. Il mito, espresso attraverso l’immagine della Generatrice universale – simbolo del potere della procreazione e delle origini – costituiva l’elemento capitale della vita sociale e faceva parte del sistema di pensiero e del costume basato su una logica simbolica. L’immagine della Dea-astratta e nello stesso tempo legata con la rappresentazione della natura pingue nell’opulenza della terra coltivata, realizza il mito che stringe il tempo presente – quello attuale e quotidiano – e il tempo mistico e sacro – quello delle origini – per cui si conquista l’immortalità [88].

L’espressione artistica (arte è anche religione) della Dea nasce in Sardegna in un terreno di cultura che le è proprio, quello c.d. di Bonuighinu, e in clima epocale che, anche altrove, produce estesamente simili “voluminose” immagini, come abbiamo visto. La cultura di Bonuighinu è il prodotto di comunità fortemente radicate al suolo e diffuse nel territorio in insediamenti stabili e attivi, che depongono i loro morti in grotticelle artificiali, accompagnati da ricchi corredi tra i quali le statuette della Dea. Sono ben fornite di attrezzature litiche per i vari usi e di ceramiche di belle forme e di elevata tecnica con esem¬plari decorati e figurati con arte. La struttura economica poggiava sul lavoro dei contadini che coltivavano grano e cereali (sono stati trovati semi forse importati da regioni della Mezzaluna fertile) e sull’allevamento del bestiame bovino, ovino e suino, non trascurando la raccolta e la caccia. Dunque un modo di vivere discreto, se proprio non avanzato, con famiglie prolifiche per ragioni di lavoro e di sussistenza, a cui non disdiceva, a mo’ di simbolo e di guida, il mito e l’immagine della Dea, madre di tutti e di tutto [89].

È in questo modello di situazione economica, nel quale si riconoscevano nell’antica Europa e nell’Asia anteriore, a partire almeno dal VI millennio a.C., tante comunità di quegli uomini chiamati da Stuart Piggot The earliest agriculturalistits, adoratori nei paesi più prosperi per biade della Gran Madre opulenta e fertile [90], che emerge e prospera anche il suo specifico sardo. Come poi la Sardegna si collocasse nel movimento di popoli e nei processi di colonizzazione o di adozione agricola che si portavano appresso l’idolo emblematico e mitico della Dea e come il modello dell’immagine fosse pervenuto anche nell’isola non è dato oggi precisare. Il cammino dall’Anatolia o dalle aree danubiana-elladica-balcanica al Mediterraneo e, in questo mare, per Creta, le Cicladi e Malta alla Sardegna appare proponibile. I tanti riscontri addotti, nelle pagine precedenti, fra idoli isolani e statuette delle aree predette, consentono l’ipotesi. Un’altra ipotesi esplicativa delle somiglianze tra l’arte sarda medio-neolitica incentrata sulle figurine della Dea e l’arte delle altre regioni europee-anteroasiatiche come risultato di un ceppo unico nel quale si manifestava, pur con qualche variante singolare, una stessa capacità intellettuale ed espressiva d’un comune bagaglio culturale, è certo suggestiva, ma temo che non trovi facile accoglienza [91]. A questa ipotesi si avvicina quella recentemente sostenuta da M. Gimbutas, d’una cultura omologante europea che comprenderebbe l’antica Europa, l’Anatolia e la Creta minoica (noi aggiungiamo la Sardegna), riflesso d’un ordine sociale di cui la donna, per così dire rappresentante in terra della Gran Madre, avrebbe ricoperto un ruolo dominante come capi-clan o regine-sacerdotesse, pur nell’equilibrio dei due sessi e in temperie di pace [92].

Una condizione di parità dell’uomo con la donna nei tempi del Neolitico in Sardegna è stata ipotizzata anche da me, ma disattento all’importanza dello sviluppo dell’agricoltura come leva e stimolo di un rapporto privilegiato tra la donna e l’ambiente e di una nuova valutazione dell’elemento femminile non tanto in senso di potenzialità erotica quanto per la funzione di fertilità collegata con la produzione naturale. D’altra parte la presenza del sacro nella società del tempo pretendeva una risposta ecologica in cui si inseriva la femminilità in tale misura da farne un culto. E ciò, essendo allora assente del tutto la violenza tecnologica connessa con la scoperta del metallo, contribuiva al mantenimento di una società pacifica [93].

Il discorso delle statuette non si può considerare concluso se non si tenta di collocarle cronologicamente, questione discutibile e discussa e che rischia di rimanere aperta. Quando tornò in luce casualmente nella metà degli anni ‘60 – primo in Sardegna nel genere – l’idolo n. 16 di Decimoputzu, venne ascritto alla fase iniziale della cosiddetta cultura di Ozieri e alla seconda metà del III millennio a.C. [94]. Tale bassa cronologia è stata mantenuta da me a da altri studiosi sino al 1985 per la stessa e le altre statuette congeneri via via rinvenute per lo più occasionalmente nell’isola. Fu il ritrovamento in sicuro strato archeologico nella fine degli anni “70 dell’idolo n. 8 di Cùccuru Arrìus, che si accompagnava al corredo funerario fornito di ceramiche e di oggetti d’osso caratteristici della cultura di Bonuighinu, a suggerire il rialzo di tutte le statuine sarde della Dea dalle membra opulente al Neolitico medio, ponendole tra il 3730 e il 3300 circa, ossia nel corso del IV millennio a.C. [95].

Questa datazione torna a quella proposta recentemente per gli idoli di Malta (3600-3300/3000 a.C.) con i quali talune statuette sarde presentano affinità formale e stilistica [96]. Tempi più brevi o meno coevi quelli di figurine cretesi sotto il palazzo di Cnosso e della Romania (3800/3600), portate a confronto dell’idoletto n. 21 da Monte D’Accoddi [97].

Anche tra le statuette n. 24 di Anghelu Ruju e nn. 25-27 di grotta Monte Meana e idoli della Moravia del tardo Cucuteni (3500 a.C.) e cicladici tipo Louros (3200-2700 a.C.), passa un certo parallelismo di stile e di età, dentro lo schema cronologico proposto per il Neolitico medio sardo e la cultura di Bonuighinu alla quale viene riferita la produzione degli idoletti grassi della Sardegna [98]. In questo schema può altresì rientrare il simulacro di Sa Màndara n. 22 se si accetta il confronto con il betilo antropomorfo di Arnesano di circa il 4000 a.C. [99]. Ma per il resto di icone di Dea madre isolane, i riscontri addotti – per la verità assai parziali – di figurine litiche e in argilla anatoliche, danubiane, greco-continentali e balcaniche portano assai in alto. Si sale al V e persino al VI millennio a.C. [100], tempi che travalicano largamente l’attuale compatta datazione delle figurine sarde. Ciò invita a riflettere sull’ipotesi d’un rialzo temporale, ovviamente solo d’una parte della produzione artistica isolana concernente le sculture della Dea, da parallelizzare con la cronologia di immagini dell’Europa orientale e dell’Anatolia. Dal che consegue l’eventuale rinunzia alla teoria, ancora coltivata [101], dell’affermazione tardiva del Neolitico e del mondo occidentale (e dunque anche del Neolitico e del mondo sardo) rispetto alle supposte assai remote e brillanti origini orientali.

Note:


[32] Un copricapo cilindrico a polos si osserva in statuette femminili stanti, con braccia ripiegate al petto, delle Cicladi, del tipo Plastiras, alto Cicladico I=3200-2700 a.C., HOCKMANN, 1976, p. 231, figg. 65-67, p. 436, 65­66, e p. 437,67 (da Delos). Però il polos di questa statuette di stile planare dal corpo interamente rappresentato nei particolari, copre soltanto l’occipite e non scende sulle spalle e lungo le gote come nelle figurine “carnose” sarde.

[33] RIES, 1983, p. 145 ss.

[34] Tale atteggiamento del volto in statuette cicladiche, RENFREW, 1976, p. 69, abb. 37, p. 70, abb. 39, p.71, abb. 38, p. 93, abb. 77. Si rileva in idoli marmorei dell’antico Cicladico II, più remoto stile Spedos, cit., p. 204, tav. IV, 254-55, p. 491 (Tera), p. 279, 198b, p. 473 (Herakleia), p. 301, 255, p. 492 (Tera), e recente stile di Spedos, cit. p. 271;171b, p. 498, p. 283, 209b, p. 475 (2700-2400/2300 a.C.); dell’antico cicladico I, tipo Plastiras, cit., p. 298, 253a, p. 491 (3200-2700 a.C.); tra il I e il II Antico Cicladico, tipo “paracanonico”, cit., p. 296,244, p. 503, e altri, cit., p. 206, tav. VI,256a-b, p. 492.

[35] LILLIU, 1967b, p. 12, fig. 2, 1968, p. 17, fig. 2, 1970, p. 12; fig. 2; LANFRANCHI-WEISS, 1973, p. 144, fig. 95,2 a p. 145.

[36] La figurina mostra la testa tondeggiante, con il volto segnato dalla stilismo a “T”, corto naso a pilastrino e sottile incisione orizzontale per la bocca, occhi a puntino. Il tipo è quello della Dea a braccia ricondotte in dentro e congiunte all’altezza della vita (le braccia sono rotonde e carnose, come quelle delle statuine sarde ‘opulente’).

[37] ZERVOS, 1957, fig. 100.

[38] HOCKMANN, 1976b, p. 173, abb. 170, p. 170.

[39] Ritenuta importata dall’Egeo, avvicinata a statuette orientali, specie minoiche cicladiche, e riferita al neolitico recente in tempi non molto lontani dal III millennio
a.C. da LILLIU (v. nota 35). Al neolitico evoluto è ascritta da LANFRANCHI-WEISS (v. nota 35).

[40] THIMME, 1971, p. 20, fig. 2, p.34.

[41] WEINBERG, 1976, P. 211, 3, p. 419,3. Come riscontro di tendenza generale di epoca a modellare statuine “opulente” stanti nella Grecia (Attica, Tessaglia, Eubea, Egina), v. RENFREW, 1976b, p. 59 ss.; pp. 208-219, 1-24,p. 419-424, 1-24; nell’Asia minore HOCKMANN, 1976c, p. 178 ss., pp. 398-400, 553-538, p. 560 ss., 553-558, (6000-4000 a.C.). Tranne il n. 24, p. 219, 424-24, dall’Attica (tardo neolitico-Antico Elladico I-ante 3200 a.C.), le altre statuette greche e anatoliche presentano la figura della Dea con le mani ricondotte al petto, sotto i seni, eccezionalmente toccando le mammelle.

[42] GIMBUTAS, 1989, p. 8, fig. 9,1.

[43] EVANS, 1961, pp. 140, 249, tav.50, LILLIU, 1971, p. 121 ss. (datata 2300-1900 a.C.), GIMBUTAS, 1989, p. 165, fig. 255,3 (fine IV millennio a.C.), PETRIOLI, 1991, p. 198, tav. I, S (3600-3300/3000 a.C.).

[44] EVANS, 1961, p. 141, tav. 50, 51-52; LILLIU, 1971, p.121; GIMBUTAS, 1989, p. 165, fig. 265, 3 (fine IV mil­lennio a.C.); PETRIOLI, 1991, p. 172, tav.I,2 (3600­3300/3000).

[45] EVANS, 1961, p. 144 ss., fine 65; LILLIU, 1971, p. 123, fig. a pp. 125, 126: confronti con idolo femminile di Soufli Magula e, per la forma allungata e cascante dei grandi seni, con figurine di Sesklo e di Hacilar (datazione 2300-1900 a.C., da rialzare al IV millennio a.C.).

[46] GIMBUTAS, 1989, p. 81, fig. 129, 1.

[47] SEIPEL, 1974, p. 226, 185,tav. n. 185.

[48] ZERVOS, 1962, p. 26, 171, 114.

[49] ZERVOS, 1962, p. 26, 175, 120.

[50] ZERVOS, 1962, p. 26, 171, 139.

[51] ZERVOS, 1962, p. 20 ss., 211, 204.

[52] GIMBUTAS, 1989, tav. 9. Vedi anche COMSA, 1975, p. 146 ss., fig. 95, 27: figurine da Traian (Romania), cultura Precucuteni, fase Precucuteni III (Iz Voares).

[53] GIMBUTAS, 1975, p.121, fig. 60, 1989, p. 133, fig. 215.

[54] TEMIZER, 1974, p. 139,31: IV millennio a.C.

[55] RENFREW, 1976b, p. 210,2, p. 419,2, figura seduta, dalla Grecia, località sconosciuta; p. 211,3, p. 419,3, figurina stante da Malta?: neolitico, ante 3200 a.C.; p. 231; 65-67; p. 436 ss., nn. 65-67 (il 67 da Delos), p. 232, nn. 68-70 (nn. 68-69 da Delos), p. 437, nn. 68-70 (n. 68 da Naxos). Sono statuette di marmo, dello stile Plastiras, fase grotta Pelos; RENFREW, dell’Antico Cicladico I.

[56] HOCKMANN, 1976 c, p. 408, n.575, p. 565 ss., n. 575.

[57] COMSA, 1975, p. 145, fig. 93,61.

[58] GIMBUTAS, 1989, p. 36, 37, fig. 59.

[59] ZERVOS, 1963, p. 187, 145, o. 577.

[60] ZERVOS, 1963, p. 13, 186, 141, p. 577.

[61] THIMME, 1971, p. 40, fig. 5, a destra a p. 37.

[62] RENFREW, 1976, p. 64, 234, 73, p. 438 73, p. 234,74, p. 439, 74, p. 439 ss., 77.

[63] HOCKMANN, 1976c, p. 400, 558, 561.

[64] ZERVOS, 1962, p. 183, 137.

[65] ZERVOS, 1962, p. 226, 238.

[66] EVANS, 1964, p. 232, fig. 63, 19 f 19b-19s, 21f-21s, p. 237.

[67] GIMBUTAS, 1989, p. 47, fig.81,2.

[68] GIMBUTAS, 1989, p. 164, fig. 255, 1. Sulla statuetta “grassa”‘ dell’ipogeo; v. LILLIU, 1971, p. 123 ss., qui anche a p. 108, fig. a p. 109 il vano dell’oracolo col soffitto ornato a spirali rosse.

[69] HOCKMANN, 1976c, p. 398, n. 555, p. 560, n. 555.

[70] MELLINK, 1974, p. 23 ss., 133, 8a.

[71] GIMBUTAS, 1989, p. 141 ss., fig. 217 (Achilleion I b: 6300), p. 141 ss., fig. 218 (Achilleion IV:5800), p. 141, 143, fig. 219 (Magula, presso Sofades-Karditsa: 6000-5800 a.C.). Le figurine sono da fase Primo Sesklo e Sesklo: neolitico antico e medio.

[72] GIMBUTAS, 1989, p. 105, fig. 175,1 (da Tursac), 2 (da Sireuil-Eyzies-de-Tayac). Sono del Perigordiano, circa 30.000 a.C.

[73] TEMIZER, 1974, p. 24, fig. 1 e pa. 131, 1.

[74] GIMBUTAS, 1989, p. 107 ss., fig. 178.

[75] GIMBUTAS, 1989, p. 72, fig. 112: da Karanovo VI, Ovcarovo.

[76] GIMBUTAS, 1989, p. 199, fig. 312: dalla tomba n. 5 della necropoli di Vykhvatintsi.

[77] RENFREW, 1976c, pp. 22, 240; 89, p. 442, 89.

[78] WEINBERG, 1976, p. 58, p. 217, 18, p. 423, 18.

[79] SEIPEL, 1974, p. 221, fig. 160, a-c: del neolitico antico: conservato nel Museo di Eleusi.

[80] GIMBUTAS, 1989, p. 32, fig. 46,1: figurina da Dolnì Vêstonice, Moravia-Cecoslovacchia, del “Gravettiano”, 24.000 anni circa a.C.

[81] FILIP, 1974, p. 294, 304a. È detto “Dio della falce” perché reca l’arnese agricolo sulla spalla destra e poggia la mano destra al busto, ai polsi ostenta un braccialetto. Intorno ai lombi gira una larga cintura istoriata. Rinvenuto a Szegvàar-Tuzkoves, presso Szentes.

[82] GIMBUTAS, 1989, p. 202, fig. 318.

[83] ZERVOS, 1963, p. 307, 398, p. 583, p. 632, 398.

[84] LEROI-GOURHAN, 1975, p. 51.

[85] RIES, 1983, p. 145.

[86] ANATI, 1983, p. 76.

[87] PONTI, 1989, p. 584.

[88] RIES, 1983, p. 145.

[89] LILLIU, 1988, pp. 42-62.

[90] PIGGOT, 1965, p. 41 ss.

[91] È un’ipotesi che avanzo sulla traccia della spiegazione data da ANATI, 1983, p. 96, per le somiglianze tra l’arte primitiva dell’Europa, della Tanzania e dell’Africa australe.

[92] GIMBUTAS, 1989, p. XX. Perché accogliere quella orribile parola di “gilania” per indicare una struttura sociale con parità di sessi, coniata nel 1987 da Riana Eisler?

[93] LILLIU, 1988, p. 104 ss., p. 115.v

[94] >LILLIU, 1985, p. 22.

[31] LILLIU, 1988, p. 50 ss.; a p. 18 proposta di datazione della cultura di Bonuighinu tra 3730 e 3300 a.C.

[96] Vedi note 43-44.

[97] Vedi note 66-67.

[98] Vedi note 76-77.

[99] Vedi nota 82.

[100] Vedi note 47-54, 58-61, 69-71, 73-74.

[101] GIMBUTAS, 1989, p. XVII.

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