28
giu
2009
Macchiette (Grazia Deledda)
I
Albeggia. Sul cielo azzurro cinereo d’una dolcezza triste e profonda, curvato sull’immenso paesaggio silenzioso, passano sfiorando larghi meandri di un rosa pallidissimo, via via sfumanti nell’orizzonte ancora oscuro. Grandi vallate basse, ondeggianti, uniformi, s’inseguono sin dove arriva lo sguardo, chiazzate d’ombra, selvaggie e deserte. Non un casolare, un albero, una greggia, una via.
Solo viottoli dirupati, muricciuoli cadenti coperti di musco giallo, un rigagnolo dalle acque color di cenere stagnanti fra giunchi di un verde nero desolato, e bassi roveti, estese macchie di lentischio le cui foglie riflettono la luce cilestrina dell’alba.
Dietro, sull’altezza bruna del nord biancheggiano grandi rupi di granito grigio e la cinta di un cimitero.
La croce nera disegnata sul cielo sempre più roseo, domina le vallate deserte: e pare l’emblema del triste paesaggio senza vita stendentesi silenzioso sotto la curva del cielo azzurro-cinereo.
Albeggia.
II
Sotto il bagliore ardente della meriggiana la cantoniera bianca dal tetto rosso, tace, dorme: le finestre verdi guardano pensose sullo stradale bruciato dal sole, e giù dal cornicione di un turchino slavato calano frangie d’ombra d’una freschezza indescrivibile. Lo stradale bianchissimo, disabitato, dai mucchi di ghiaia sprizzanti scintille al sole, serpeggia per una vasta pianura coperta di boschi di soveri.
In lontananza, alte montagne a picco, velate di vapori azzurri e ardenti, chiudono in circolo l’orizzonte infuocato. Sotto l’aria ferma, irrespirabile, nello splendore piovente dal cielo di metallo, i soveri nani, lussureggianti, proiettano corte penombre verdastre sul suolo arido, sui massi, tappezzati di borraccine morbide come peluche. Una fanciulla è coricata appunto su uno di questi massi, supina, le braccia e le gambe semi-nude.
La sua persona esile e ben fatta spicca sul verde tenero di quel tappeto naturale, e i fiori rossi di broccato del suo corsetto un po’ lacero sanguinano nella penombra del bosco. Nel caldo asfissiante del meriggio, nel costume consunto e misero, stuona meravigliosamente la carnagione della fanciulla, di una bianchezza fenomenale, tanto più che sotto il fazzoletto giallo si vedono dei capelli nerissimi, e sotto le palpebre stanche due occhi di un nero-cenerognolo foschi e impenetrabili.
Chi è? Impossibile saperlo: ella non fa il minimo movimento nel languore spossato del caldo, e forse sogna, forse dorme, bianca e silente come la cantoniera vicina, sotto il bagliore ardente della meriggiana.
III
Il sole tramonta: dal villaggio in festa giunge un rumore confuso, vago e lontano, sino alla stanzetta tranquilla della casa del contadino.
La finestra è aperta sul poggiuolo di mattoni crudi su cui tremola alla brezza del tramonto una povera pianticella di basilico, che pare sorrida anch’essa, benché sola e dimenticata, fra la letizia dei casolari neri e del cielo d’oro. Oh, i luminosi orizzonti! La vallata verde circonda il villaggio, e la vegetazione in fiore olezza e risplende fra la nebbia ignea del sole al declino.
Dal piccolo poggiuolo di mattoni crudi si domina una viuzza strettissima e altre casette piccine, annerite dal tempo, i tetti muschiosi, via salienti sino al vecchio maniero spagnuolo, la cui facciata di stile moresco rosseggia in viso all’ovest, gli spalti cadenti perduti fra gli splendori del cielo, come il ricordo della triste dominazione aragonese nella luce dei nuovi tempi.
Nella casetta più vicina al poggiuolo la porticina nera è chiusa, ma al di fuori sta appesa una corona di fichi diseccantisi e sul davanzale della finestruola un gatto dalla schiena tutta abbruciacchiata contempla solennemente sulla via, dove passa solo una donnina in costume, dal viso color di rame, allacciandosi bene il corsetto di panno giallo e di velluto viola cesellato.
Dentro la stanzetta del poggiuolo un giovine, anch’esso in costume, piglia il caffè. Ha posato la chicchera verde sulla cappa di una specie di vecchio camino, e ritto dando le spalle alla finestra, beve a centellini la prediletta bevanda.
È malato, ma sul suo viso biondo, pallidissimo, da convalescente, sta dipinta un’intima voluttà, il benessere di chi si riaffaccia pieno di speranza alla vita, dopo una lunga malattia.
Il letto di legno, dalle coperte di percalle a fiorami arabeschi, basso e duro ma con una fisionomia tranquilla, tipica, diremo quasi sonnolenta, le sedie grigie, il rozzo guardaroba rosso, la cassa nera di legno scolpito a strani fiori e animali antidiluviani, la tavola coperta da un tappeto bianco, adorna di vassoi e chicchere, tutto sorride intorno al giovine contadino convalescente, nella pace beata della povertà felice, nella luminosità del tramonto di rosa. In alto, sulle pareti tinte di calce, una innumerevole fila di quadretti a vivi colori scintillano soavemente nel polviscolo d’oro, e i vecchi vetri della finestra ardono come lastre di orpello al riflesso del sole che tramonta.
IV
E cade la notte! Nella chiesa miracolosa, nel famoso santuario ove la folla immensa è passata senza lasciare traccia alcuna, la penombra si addensa, livida, fredda e piena di mistero.
In fondo, dai finestroni bizantini, piove un acuto albore azzurro sul pavimento di mattoni a mosaico il cui smalto ha vaghi riflessi d’acqua stagnante: in alto, sull’altare bianco, una lampada di cristallo vermiglio spande tremoli chiarori rossastri che scendono e salgono sui fiori pallidi, sui candelabri dorati, sulle colonnine doriche di diaspro della nicchia coperta da un panneggiamento cereo a marezzi azzurri, di damasco.
Superbe treccie nere, tutte nere, narratrici di romanzi e di drammi immani o pietosi, gioielli d’oro e d’argento, stupende membra di cera, mani di vergini cristiane di una suprema e morbida soavità, e colli bianchissimi ed eleganti da veneri greche, pendono sulle pareti gialle e polverose.
Qui ancora troviamo una fanciulla, ma non è più la popolana sopita nel meriggio del bosco. È signora: vestita di bianco, inginocchiata sui gradini dell’altare, la fronte sulla balaustrata, le mani strette convulsivamente una con l’altra nel fervore della preghiera.
Le pieghe morbide del suo lungo vestito dalle alte maniche alla Margherita di Valois, cadono al suolo con abbandono artistico da statua, e biancheggiano soavi nella penombra rossastra della lampada notturna.
Il volto pallido della fanciulla, i grandi occhi castanei e profondi esprimono una disperazione straziante, cresciuta dalla tetra melanconia del crepuscolo morente.
Oh, qual grazia chiedono mai quegli occhi al santo miracoloso nascosto dietro la cortina di damasco come un re orientale? Ecco, ella s’alza al fine, e uscita sulla spianata si ferma immobile davanti al parapetto che guarda nella valle.
Sul cielo tinto di croco e di smeraldo si elevano i monti neri e la luna spunta fra le loro creste frastagliate. La rena della grande spianata scintilla ai primi raggi della luna, e il villaggio si profila laggiù, fra le agavi grigie e i pioppi argentei della valle, mentre il santuario spicca sul cielo violaceo del nord, coi due grandi finestroni bizantini che paiono due strani occhi di bronzo smaltati al riflesso dell’oriente fatto splendido dall’alba della luna.
Dietro, le terre di mezzanotte, immense campagne opime, valli dirupate in cui rugghia il torrente, e montagne sulle cui cime domina la leggenda, si stendono vaghe e indistinte come un sogno, nella luce vaporosa dell’ultimo crepuscolo, e i forti borghi solitari riposano fra i lentischi cinerei della pianura o su i greppi neri delle rupi scoscese.
La fanciulla bianca guarda al nord, e grandi visioni misteriose, sogni arcani e profondi le attraversano gli occhi pensosi perduti nell’estrema lontananza; e il suo volto pallido, il suo vestito marmoreo paiono d’argento nella nivea luminosità della luna sempre più bianca e fulgida a misura che cade la notte.
V
Nell’alta notte plenilunare tre cavalieri passano al galoppo attraverso il sentiero delle montagne rocciose. La canna dei loro fucili brilla alla luna, e i cavalli nitriscono nel profondo silenzio del paesaggio sublime.
Lontano, le nuvole salgono dal mare di madreperla sottilmente pennellato nell’estremo orizzonte, salgono lente sul cielo d’orpello del plenilunio, azzurre e diafane sul fondo bianco dell’infinito.
Sulle cime delle alte montagne rocciose la neve disegna un profilo iridato, fantasmagorie marmoree e miniature d’oro degne dei versi d’Heine, ma le quercie annose fremono al vento di tramontana che susurra tetre leggende e storie di sangue fischiando fra le gole dirupate e le grotte di granito.
Il sentiero asprissimo attraversa tortuoso le rupi immani e i macigni neri che assumono fantastiche forme di torri gotiche rovinate e di dolmen coperti d’edera e di rubi, reso più pericoloso e pittoresco dalla luce della notte. Sotto il bosco i raggi della luna piovono a fasci, come getti di diamanti, proiettando aurei arabeschi e damaschinature orientali sulle felci bionde ondulate dal vento: attraverso le quercie brune il cielo lunato ha un aspetto così incantato coi suoi gemmei splendori che richiama al pensiero i cieli impossibili delle novelle da fate; e i ciclamini, i verbaschi, l’usnea dei tronchi impregnano l’aria d’un acuto profumo da foresta tropicale. Oltre i tre cavalieri che attraversano il sentiero, neri, muti, avvolti nei loro cappotti bruni dal cappuccio a punta, come cavalieri erranti da epopea medioevale, un piccolo mandriano con la sua greggia popola ad un tratto la solitudine infinita delle montagne.
Seduto sotto una rupe, insensibile al vento che fischia nel limpido plenilunio, guarda le pecore pascolanti nella notte chiara, intento al loro tintinnio monotono e melanconico vibrante fra i burroni erbosi e le pietre muscose, fra le eriche selvaggie e i tronchi divelti dalla procella.
Il piccolo mandriano è brutto, il volto oscuro come l’albagio del suo ferraiuolo, ma nei suoi occhi cuprei dal bianco azzurrino e l’iride piena di un languore profondo, splende un raggio pensoso che è tutta una rivelazione: forse il piccolo pastore è già poeta e nell’interno della sua mente vergine e selvaggia come le montagne rocciose su cui scorrono i suoi giorni deserti, gusta più che qual siasi artista colto e fine la poesia ineffabile, piena di voluttà sovrumane e spirituali; del silenzio azzurro dell’alta notte plenilunare.
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Memoria di Sardegna
Sardegna mia, terra misteriosa,
benché lontano io sia ti vedo ognora
gioire sotto un ciel tinto di rosa
al sorgere festoso dell’aurora.
Vedo i tuoi monti elevarsi al cielo
e le colline vivide di fiori
e scorgo la ginestra e l’asfodelo
mollemente ondeggiare ai tuoi tepori
vedo nelle tue valli i tuoi pastori
solitari, cantando nenie antiche;
ammiro nei tuoi borghi i bei colori
che veston le fanciulle tue pudiche.
Vedo te, Chiaramonti, almo paese,
tra due colli quieto riposare
e scorgo te, casa mia, dolce e cortese,
che solitaria stai nell’aspettare.
Aversa 1955
BELISSIMA POESIA,
GRAZIE MILLE
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