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Il castello di Chiaramonti: la Topografia – di Gianluigi Marras

Scritto da Gianluigi Marras

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Analisi topografica

L’area da me analizzata mediante ricognizione archeologica è nota nella cartografia catastale come San Matteo[1], ma viene chiamato popolarmente Monte e’cheja, ovvero “monte della chiesa”. La toponomastica riporta dunque memoria dell’antica parrocchiale di San Matteo, traslata poi nell’attuale sede nel 1888[2], e non serba traccia dell’antico castrum.

Effettivamente la prima ubicazione del castello nel sito è quella dell’Angius, seguito poi dal La Marmora e quindi dagli altri studiosi di storia sarda, nella prima metà dell’800. Ancora il Mamely de Olmedilla, nella sua Relazione del 1769[3] (scritta l’anno prima), descrive la parrocchiale[4], “…grande e non brutta né in cattivo stato…[5]; ci dice inoltreche la pianura dove è situata in passato doveva essere popolata, “…secondo quanto indicano le fondamenta di abitazioni[6]” senza però far menzione di eventuali torri o apprestamenti militari.

L’Angius[7] è invece il primo che identifica il sito della chiesa parrocchiale con l’ubicazione dell’antico castello. Al momento in cui scrive “…sta ancora tutta intera una torre, perché fattasi servire a campanile; sono di un’altra visibili alcune parti, ed è qualche vestigio delle mura, tra le quali la cisterna scavata nella roccia…”[8]. Il generale Della Marmora, che visitò il paese nel 1834[9],  riteneva invece che della costruzione militare non restasse traccia e che sul suo perimetro fosse sorta la chiesa[10].

Descrizione geografica

La collina di Monte e’cheja è una delle tre alture su cui insiste il centro urbano di Chiaramonti, più precisamente quella posta a nord-est, di fronte alla collina denominata Cunventu a nord-ovest e a quella di Codina Rasa, sud-est. Tutto il massiccio è posto a strapiombo verso la fertile vallata interna dell’Anglona ad est (dove sorgono gli attuali centri di Martis, Laerru e Perfugas) e la vallata del Rio Iscanneddu a nord e nord-ovest (nella zona è vitale attualmente solo il villaggio di Nulvi, ma nel Medioevo vi si contavano molti insediamenti civili e monastici), mentre degrada più dolcemente verso sud. Storicamente il centro di Chiaramonti rimase isolato dalle vie di comunicazione fino agli anni settanta dell’ottocento, quando venne costruita la strada statale da Ozieri e Castelsardo[11], che ancora lo attraversa.

L’area sottoposta all’analisi è costituita dal tavolato calcareo in cima a Monte e’cheja, posta alla quota di 467 m s.l.m.. I versanti si presentano piuttosto ripidi in tutte le direzioni: solo a sud-ovest c’è la possibilità di un’ascesa, mentre ad ovest, sud, nord e nord-est si nota la presenza di pareti rocciose verticali di varia estensione. Specialmente il versante ovest è costituito da un fronte roccioso alto circa 10 m, di quasi impossibile percorrenza, soprattutto nei mesi invernali.

La posizione elevata è particolarmente esposta alle intemperie invernali e specialmente ai venti di maestrale e tramontana, uno dei fattori per cui fu decisa la traslazione della chiesa. Negli ultimi decenni, come ricordato dalla tradizione popolare, un gran numero di fulmini ha colpito il campanile e la chiesa, causando vari danni strutturali, quali ad esempio il crollo della cupola di copertura della torre campanaria.

Il sito è stato dotato negli anni 80′ di una strada  d’accesso lastricata in calcare, muretti di delimitazione e tavoli e bonificato con una piccola piantagione arborea. Più anticamente l’ascesa al monte era nella stessa posizione, ma spostata alcuni metri più a sud, nell’antico fronte roccioso, arretrato a causa delle attività di cava effettuate nel Novecento, e non carrabile, ma percorribile solo a piedi o a cavallo[12].

Tutta la parte più elevata della collina di Monte Cheja è svantaggiosa  per l’insediamento umano per l’esposizione sfavorevole ai venti freddi, per la lontananza delle risorse idriche (la fonte più vicina, detta Funtanedda, è situata all’inizio dell’antica strada per Martis, a circa 150-200 m dalla cima del monte, dopo una ripida discesa) e per l’impossibilità di coltivare la fascia più elevate delle pendici, troppo ripide (piccole culture ortive e frutteti sono invece impiantabili al di sotto della suddetta fonte).

L’impianto urbanistico di Chiaramonti

Il centro urbano di Chiaramonti attualmente, anche grazie ad una dissennata politica urbanistica, si è sviluppato fino alle immediate pendici meridionali e orientali del pianoro di Monte Cheja; tuttavia ancora negli anni sessanta del novecento non  si estendeva al di sopra dell’attuale Via Arborea e di Via San Giovanni  a meridione e a est.

Al contrario nelle catastali compilate negli anni 60′è possibile leggere il vecchio tessuto urbanistico, organizzato ancora alle falde dell’antica parrocchiale di S. Matteo. Il paese, dopo una zona di rispetto di alcune decine di metri, è organizzato ad ovest in quattro vie parallele, le odierne Via S.Luigi (che riprende il nome popolare, precedentemente Via Castello), Via Falchi (prec. Via Rettore Cossu, tradizionalmente Carrozzu Longu, dal genovese Carrugiu[13]), Via XX Settembre (prec. Via G.M Angioy, tradizionalmente Via delle Balle, con termine italiano che forse ricorda il rinvenimento di proiettili litici) e Via Carlo Alberto, che risalgono la pendenza[14].

Tali direttrici sono intersecate quasi ortogonalmente da tre arterie isoipse: Via al Castello (ove sorgeva la chiesa di S.Luigi, diruta da secoli), Via Anglona e Largo Nicolò Vare (nella tradizione orale Muru Pianedda[15], con ripresa del medesimo toponimo castellanese, ad indicare una piccola zona piana[16]) che limitava il paese a sud.

A tale area è connessa, mediante l’arteria di Corso V.Emanuele III (tradizionalmente Sa piatta), un quartiere organizzato secondo isoipse (Via Mazzini etc); al punto di incrocio fra i due moduli è la nuova parrocchiale di San Matteo, officiata almeno dall’ottocento col titolo di Oratorio di S.Croce.

Altri punti notevoli dell’antico abitato erano presso Cunventu[17], il Convento dei carmelitani[18], presso la chiesa del Carmelo, nel colle a ovest di Monte Cheja, e la chiesa del Rosario, presso cui si sviluppava il rione di Sa Niera e, nell’ottocento, una direttiva di espansione verso la caserma, con le residenze dei maggiorenti locali.

Si potrebbe dunque ipotizzare che il primo nucleo descritto sia stato il fulcro dell’insediamento di Chiaramonti, richiamando del resto la struttura organizzata di altri centri di fondazione signorile quali Monteleone Roccadoria. Sappiamo che il secondo modulo fu invece in parte creato da un’espansione della prima metà dell’ottocento verso la zona rurale di Pala e Chercu[19]; dubbi permangono invece sul rione di Sa Niera, di cui non è ben chiaro il rapporto con la Chiesa del Rosario, che una prima analisi stilistica sembrerebbe datare al seicento.

Ricognizione archeologica

Il confronto fra le fonti scritte, la toponomastica e la tradizione orale dunque identificava la collina di Monte Cheja-San Matteo come sede originaria del Castrum Claramontis e fulcro del centro urbano di Chiaramonti. La presenza delle imponenti rovine della dismessa parrocchiale, recentemente oggetto di un intervento di restauro, rappresentano sicuramente un’ulteriore spinta all’analisi di quest’area. Tuttavia l’arretratezza in Sardegna dello studio delle fonti materiali di epoca medievale e post-medievale ha avuto come conseguenza la mancanza di studi non solo archeologici, diagnostici o stratigrafici, ma anche storici e storico-artistici e stilistici sulla chiesa.

Per far fronte a questa lacuna si è deciso di procedere con le metodologie dell’archeologia del paesaggio, svolgendo di fatto un’analisi infra-sito di altissima densità (60 giorni/uomo al Kmq), mediante ripetuti passaggi sul terreno, raccolta e studio dei reperti e analisi stratigrafica degli elevati. I risultati ottenuti con il primo degli steps descritti sarà l’oggetto di questo capitolo.

Considerando che l’intensità della ricerca necessitava della maggior analiticità possibile, si è proceduto con una suddivisione per Unità Topografiche (d’ora in poi UT) che tenesse conto delle minime differenze possibili quali recinzioni e differenze altimetriche. Tale condotta mirava naturalmente a riconoscere il maggior numero di azioni e quindi a ricostruire la storia del sito nel modo più completo[20].

Un fattore di inibizione e ostacolo alla ricerca è stato il massiccio danneggiamento e impoverimento del potenziale archeologico del sito databile almeno a tutto l’ultimo secolo.

Queste sono state le azioni individuate: spoglio dei conci della chiesa per uso edilizio; cava di calcare di fronte all’ingresso della chiesa e nel versante sud del monte; caduta di fulmini e conseguente danneggiamento delle strutture, specialmente delle coperture delle cappelle e della parte terminale del campanile; abbattimento della facciata della chiesa, pericolante negli anni cinquanta del novecento da parte del comune; costruzione della strada e lavori con disturbo parziale del deposito stratigrafico e spostamento di terra; messa in opera dell’impianto d’illuminazione presso la chiesa, con grave  perturbazione del deposito stratigrafico in punti probabilmente di grande interesse per la ricerca (angolo sud -ovest a fianco della chiesa, retro dell’abside etc); restauro delle murature superstiti con utilizzo indiscriminato di malte a coprire i rapporti stratigrafici originari.

Tali deterioramenti rappresentano un limite, spesso non riconoscibile, e perciò più pericoloso, della ricerca, in quanto hanno causato fraintendimenti e lacune delle informazioni, spesso irrecuperabili; sono inoltre una palese dimostrazione della noncuranza e mancanza di intelligenza da parte di coloro che avrebbero maggiormente dovuto curare la tutela del sito.

Il survey effettuato sul sito nei mesi di agosto e settembre del 2006 ha portato all’evidenziazione di 14 Unità Topografiche di varia tipologia[21]. L’emergenza più importante individuabile nel pianoro è la chiesa diruta di San Matteo, UT 1, analizzata per mezzo dell’analisi stratigrafica degli elevati effettuata su campioni significativi. E’ sita nell’estremità nord-ovest dell’altipiano, irraggiungibile da nord e ovest, vi si accedeva da uno stretto sentiero posto di fronte all’entrata, distrutto poi nel corso del tempo da attività di cava e dalla costruzione della nuova strada. Presso la chiesa sono state riconosciute altre UT di primaria importanza per la lettura diacronica del sito ma purtroppo di difficile, o quasi impossibile comprensione, per la loro stessa collocazione.

Di fronte all’angolo sud-ovest dell’edificio chiesastico, ad una quota di poco inferiore, è l’UT 13, costituita da almeno due creste murarie, che sembrano formare un angolo retto, in coincidenza con l’attuale sperone roccioso, con direzione est-ovest e nord-sud. Tali murature, poco conservate, si elevano per due/tre filari da terra, sono fondate sulla roccia e costruite in elementi calcarei (e più raramente basaltici) non lavorati, legati con una malta di colore bianco-giallo e dai pochi inclusi. La tecnica costruttiva non è chiarissima per la povertà del sopravvissuto e perché le creste sono obliterate.

La muratura con andamento sud-nord confluisce (non sono chiari i rapporti stratigrafici) in una possente muratura (larga oltre 2 m) costituita da grandi blocchi in calcare e arenaria, non lavorati, e abbondantissima malta, che prende nel prospetto nord un andamento curvilineo. Sembra dunque di leggere le tracce di una costruzione semicircolare, al cui interno si potevano notare qualche anno fa delle scale, ora obliterate da detriti.

Non è comunque chiaro il significato dell’UT 13; la parte settentrionale può essere collegata alla presenza di una cappella poi rasata della chiesa anche se in tal caso rimarrebbe enigmatica la presenza della scalinata, oppure alla notizia, fornitaci dall’abate Angius[22], delle rovine di una torre circolare presso la chiesa.

Irrisolvibile, se non mediante un’analisi stratigrafica, è anche il ruolo della parte meridionale dell’UT, che sembrerebbe legata ad una fase precedente l’ultimo impianto della chiesa e quindi o ad una fase chiesastica anteriore o addirittura a quella castrense.

Ad ovest dell’UT 1, sono riconoscibili i resti di una struttura muraria, denominati UT 14. Purtroppo il posizionamento a strapiombo sul salto di quota ha impedito una ricognizione meno che sommaria dei resti .

Anche l’UT 14, così come l’UT 13, è di interpretazione problematica; se fosse in fase con la chiesa potrebbe avere avuto scopo difensivo (in pratica sarebbe l’attuazione della risoluzione auspicata da V. Mamely de Olmedilla per il troppo vento[23], incompiuta tuttavia e inutile perché troppo bassa) o di delimitare un terreno (ma a tal fine sarebbe stato forse più agevole l’utilizzo del salto di quota); pare inoltre complicato impiantare un cantiere edilizio in tale situazione e con l’edificio religioso ancora integro. Indimostrabile, ma molto affascinante, l’ipotesi che appartenga alla fase precedente l’impianto della chiesa, dove avrebbe potuto svolgere un ruolo difensivo, quindi come cinta muraria, a difesa del versante occidentale del pianoro.

Appoggiata (o legata, i rapporti stratigrafici sono resi incerti dal recente restauro) al lato orientale dell’UT 1 è l’UT 11, spazio quadrangolare (15 m il est-ovest, 11 quello sud-nord) recintato a nord, est e sud da murature in calcare, basalto e trachite, raramente lavorati; si leggono tracce di malta solo nel perimetrale settentrionale, in prossimità della chiesa e nella sua parte orientale. Fra le pietre si notano frammenti ossei e coppi. Si registra l’uso, specialmente nella parete est, di grossi blocchi, talvolta di riuso; in particolare l’angolare sud-est è costituito da conci calcarei sommariamente sbozzati di grande  dimensione.

Lo spazio interno è colmato di terra fino al livello delle creste murarie, che ne sono infatti in parte obliterate; il sedimento è nero, grasso, ricco di frammenti laterizi  e di resti ossei umani. Qui furono effettuati nell’estate del 1993 due saggi di scavo, i cui risultati non sono mai stati pubblicati, che misero comunque in luce delle sepolture[24]. Per le ragioni suddette è d’obbligo interpretare l’Unità Topografica 11 come spazio cimiteriale legato alle esigenze della comunità servita dalla parrocchiale, impiantato sicuramente dopo l’allargamento delle cappelle laterali[25] e quindi successivamente ampliato, quasi sicuramente per la necessità di spazio, verso sud.

Rimane problematico tuttavia il rapporto di tale necropoli con l’ossario interno alla chiesa  e con la notizia ottocentesca delle sepolture sotto la pavimentazione della chiesa; è possibile ipotizzare una sequenza diacronica oppure diverse tipologie di sepolture (è attestato che sotto all’interno della chiesa vi fossero delle sepolture privilegiate e delle tombe infantili) usate sincronicamente?

Ad est della torre campanaria, a nord-est del recinto cimiteriale, in posizione depressa rispetto all’area circostante, è stata rilevata una fossa (UT 9), la cui profondità, rispetto al materiale di riempimento posto sul fondo, è di almeno 2,5 m. L’UT ha una planimetria a forma di “8″ (asse N-S 3m. larghezza massima 1,70 m, larghezza minima alla strozzatura 1,25 m), con la sfera meridionale di minore dimensione; proprio questa parte è stata ulteriormente allargata mediante l’apertura di una nicchia dall’apertura rettangolare, che si restringe verso il basso. Il taglio della roccia è quasi verticale, e le pareti sono intonacate con coppi disposti di piatto e abbondante malta grigiastra, lisciata in superficie. Tale rivestimento non copre tutte le superfici in modo omogeneo, ma si interrompe ad un punto abbastanza basso dell’apertura, in modo discontinuo. La funzione dell’UT 9 era sicuramente quella di cisterna per l’approvvigionamento idrico; poiché nel banco di roccia contermine alla fossa, pur molto degradato, non si leggono tracce di canalizzazioni si può immaginare che il serbatoio convogliasse l’acqua piovana mediante la pendenza del terreno circostante oppure che vi venisse versata, almeno in parte, da portatori d’acqua.

La cisterna ha generato alcune leggende, piuttosto diffuse in contesti simili; mi è ad esempio stato riferito che la cavità fosse completamente colma di detriti e che sia stata svuotata, almeno un secolo fa, da un prete in cerca di un tesoro (su siddadu). Altri racconti riportano che in realtà la fossa non sarebbe altro che una via di fuga, un passaggio segreto, che conduceva, secondo le varianti, al castello di Casteldoria, alle falde del monte o infine al monte prospiciente, dove sorgeva il convento dei domenicani.

Tutto l’altipiano è interessato dalla dispersione di materiale litico, fittile e ceramico. L’UT 10 è estesa in tutto il pianoro, internamente al muro di recinzione, e comprende al suo interno anche l’UT 1; presenta una dispersione, piuttosto debole, di scaglie litiche, coppi in stato molto frammentario e rarissima ceramica; il materiale è in quantità maggiore presso gli alberi. Il terreno è regolarmente pianeggiante, con pochi dossi e avallamenti, e in più punti affiora il banco roccioso. Naturalmente la sistemazione a scopo ricreativo dell’area ha prodotto degli spostamenti e degli accumuli di terra, e conseguenti disturbi nella sua lettura, che sembrano tuttavia minori rispetto alla parte esterna alla recinzione. Per i fattori sopra esposti, aggravati dal basso livello di leggibilità, si può solo ipotizzare l’assenza di strutture sottostanti e spiegare dunque la presenza del materiale come risultato degli spostamenti di terra.

All’angolo sud-ovest dell’altipiano, a sud della strada (UT 2), a sud-est di questa (UT 3) e esternamente alla muratura nei versanti orientale e, in parte, meridionale sono presenti presente accumuli di terra, pietrame e materiale vario. Al di sotto, direttamente sulla roccia calcarea superficiale, sono dispersi, in modica quantità, frammenti fittili e ceramici (nude grezze, graffite a stecca pisane, invetriate e maculate di produzione locale), dall’elevato grado di sminuzzamento. La giacitura è fortemente influenzata dalla pendenza e dall’azione di ruscellamento superficiale delle acque piovane; le UT sembrerebbero dunque risultanti dalla costruzione della strada negli anni 80′ del novecento, con spostamento e accumulo di terra al di là della recinzione di terra e suo conseguente dilavamento.

A sud dell’UT 3, a un livello altimetrico più basso, è stato riconosciuto un fronte di cava, UT 8, con due tagli con direzione est-ovest posti uno di fronte all’altro. Il fronte nord presenta un taglio (lungo 6 m e alto al massimo 2 m) verticale, con un gradino nella parte occidentale, coperto da terra e, nella porzione orientale, da un muro a secco in rovina. La parete è liscia, poco erosa, e presenta cinque fori circolari passanti, dalla genesi e funzione incerta. Non si possono purtroppo stabilire i moduli dei conci estratti. Di fronte, a 3 m di distanza (lo spazio intercorrente è colmo di detrito) è un probabile secondo fronte di cava, meno lungo ed alto. Nel banco roccioso dove è stato effettuato è riconoscibile una fossa quadrangolare poco profonda. Nel sito era presenta una cava per l’estrazione di materiale da costruzione, risalente ad un momento precedente l’utilizzo dell’esplosivo (metà del XX secolo) in operazioni di questo tipo. E’ ricordata ancora in attività nella prima metà del novecento.

Le pendici orientali, meridionali e occidentali di Monte Cheja sono attualmente occupate dalla recente espansione edilizia, che ha intaccato e presumibilmente distrutto il potenziale archeologico dell’area. Solo parte del pendio occidentale e di quello settentrionale sono ancora liberi da costruzioni, probabilmente a causa della pendenza elevata e qui si sono potute rilevare delle emergenze archeologiche. Il versante roccioso posto al di sotto della parte occidentale della chiesa è interessato da una serie di azioni edilizie poste su tre livelli (UT 12), costituito dalle sostruzioni dell’edificio religioso e da cavità naturali chiuse da strutture murarie probabilmente ad uso agro-pastorale.

Il pendio al di sotto di questo complesso (UT 5) contiene una forte dispersione di elementi litici, laterizi, ceramica (in piccola quantità, si annoverano soprattutto produzioni e rari prodotti più antichi) e materiale vario. I reperti sono disposti in modo incoerente e la giacitura e fortemente influenzata dalla pendenza.

Immediatamente a nord dell’UT 5 è sito un lotto di terreno (UT 6), chiuso in ogni direzione da recinzioni metalliche, dalla forte pendenza, coltivato ad erbaio per il pascolo, dalla forte pendenza. La dispersione è qui molto elevata e comprende un’enorme quantità di pietrame, coppi e frammenti ceramici, che si accumulano specialmente nella fascia altimetrica più bassa. Nell’isoipsa più alta invece i fittili sono più rari (e meno sminuzzati), ma si notano vari litici squadrati e lavorati, provenienti probabilmente da strutture sovrastanti.

Il materiale ceramico riconosciuto afferisce soprattutto alle produzioni di  nude grezze, maiolica arcaica pisana e savonese e ispano-moresche, mentre sembrerebbero piuttosto rare le intrusioni di reperti più recenti (sono stati comunque rilevati catini verdi valdarnesi e invetriate ottocentesche). La grandissima quantità di oggetti databili al tardo medioevo, e al più tardi (ma in misura minore) al seicento, fanno ipotizzare in quella fascia cronologica, un’azione di discarica dal pianoro sovrastante,  da porre forse in relazione con azione di distruzione e/o costruzione di strutture.

In definitiva si potrebbe trattare di un’azione di discarica conseguente alla distruzione di strutture precedenti e alla costruzione, o ampliamento, di nuovi edifici e quindi, più precisamente, di un’azione legata all’impianto o ad uno degli ampliamenti documentati per la chiesa di San Matteo.

Note:


[1] Tale nome era usato normalmente anche a livello colto, vd. Patatu 2004, p.270.

[2] Chiaramonti, p. 100.

[3] Edita e tradotta in Bussa 1986.

[4] Questa invece è solo citata dallo Zabarayn nel 1701, che ci dice però che il villaggio, di 190 case, è posto “…in terreno aspro nella pianura di un monte…”, Bussa 1987, p.430.

[5] Bussa 1986, p.301.

[6] Bussa 1986, p.301.

[7] Angius 1850, p. 658

[8] Angius 1850, p. 658

[9]Notizia in Patatu 2004, p.92.

[10] Della Marmora 1868, II, pp.670-671.

[11] Il tracciamento definitivo è databile al novembre del 1870; la strada fu aperta al traffico nell’agosto del 1873, cfr. Patatu 2004, pp.101-102; 106-108

[12] Solo i carri cingolati riuscivano, con grande sforzo, a percorrerla negli anni 50′, come testimoniato dal sig. Giovannino Falchi, che ringrazio per la disponibilità con la quale mi ha fornito un gran numero di notizie sul castello e il paese di Chiaramonti fino alla prima metà del novecento.

[13] Maxia 1994, p. 121.

[14] Ancora nel 1834 l’abitato era concentrato in tre arterie principali, Carruzzu, Longu, Muru Pianedda e Pala e Chercu; il punto d’incontro era l’attuale Via Lamarmora, su Salone. Cfr Chiaramonti, p.87.

[15] Il toponimo è citato anche in Patatu 2004, p.287.

[16] Maxia 1994, p.334.

[17] Maxia 1994, p. 154.

[18] Fondato nel 1587, cfr. Chiaramonti, p.57.

[19] Una testimonianza ottocentesca in merito in Patatu 2004, p.287.

[20] Il modello di schedatura utilizzato è quello, continuamente in corso di elaborazione e revisione, delle Cattedre di Archeologia Medievale dell’Università di Sassari  e Pisa del prof. Marco Milanese, sulla base della scheda UT elaborata alla fine degli anni novanta dal gruppo di lavoro dello stesso prof. Milanese nelle Università di Sassari, Genova e Pisa (Per cui vedi Gattiglia-Stagno 2005). Tale modello è rielaborato e aggiornato costantemente in rapporto alle esperienze sul campo, svolte in riferimento a tesi di laurea e progetti di  ricerca afferenti comunque alle Cattedre di Archeologia medievale dell’Università di Sassari e di Pisa e al nascente Centro di Documentazione dei Villaggi Abbandonati della Sardegna.

[21] Riferimenti metodologici per l’indagine sul campo Cambi-Terrenato 1994, Cambi 2003, Milanese 1999, Valenti 1989.

[22] Angius 1850, p. 658.

[23] Infra, introduzione al presente capitolo.

[24] Ricordo personale.

[25] Infra, par. 4.1.3.2.

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  1. angelino tedde dice,

    Ringrazio vivamente e con gratitudine Gianluigi Marras per aver concesso sia a ztaramonte sia ad accademia sarda il frutto prezioso delle sue ricerche a beneficio non solo della propria comunità di origine e della città di adozione, ma anche agl’internauti di tutto il mondo che visitano i due siti. Il sapere, una volta acquisito, si deve distribuire come il pane e non può essere tenuto nascosto e quasi ad uso egoistico. Gianluigi, che ha a suo attivo ricerche e scavi, è uno studioso esemplare e che ha capito che si studia e si fa ricerca a favore di tutti. Un caloroso ringraziamento e un invito ai nostri numerosi laureati di Chiaramonti perché diffondano i loro lavori di ricerca a beneficio della comunità.
    Angelino Tedde

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