Archivio di aprile, 2011
Scritto da angelino tedde
Su giru de su sole e de sa luna cun issu, die pro die si faghet pius lughente: pro a nois est cumintzadu su tempus de su sole.
S’emisferu australe s’illuminat semper pius e su boreale a pagu a pagu che ruet in s’iscuru. Sas dies nostras si faghent pius longas, cuddas issoro como s’incurtziant de pius. E nois, fortunados, cun custu bellu sole, faghimus Pasca de Abrile.
Dae Putugonzu pigant fintzas sos cantigos de sos isturulos chi c’amus catzadu dae su gialdinu, cun sas arvures a corros de becu, pro lassare sos pitzinneddos in logu siguru.
Dae sas baddes pigant sos belados de sos anzoneddos e sas rundines bolant subra sas cobisturias e girant a inghiriu de su campanile de Santu Matheu.
In s’Istradone sa tzente paret pius cuntenta ismentighende pro pagas dies sas gherras e su ciarra ciarra de sa televisione.
Calchi mama de familia e calchi giaja, in d’ogni carrela ue giogant ancora sos piseddos, fizos o nebodeddos, a s’antigoria ammannizant pabasinos e cadajinas puru si b’est sa Dulcaria Tzaramontesa ue si podet comporare de totu: copulletas, pabissonos, cotzulas de pistiddu, cadajinas e finza dulches de tzitade: ca sos tzaramontesos sunt licaldos dae cando ant postu mata.
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Scritto da angelino tedde
Come potrei riconoscere la mia identità se non avessi la memoria del mio passato? Non solo è scritto sull’estratto dell’atto di nascita e sulla carta d’identità, ma nella memoria dell’infanzia quando i miei compagni mi chiamavano col nome e cognome, più spesso col soprannome. Per dieci anni il mio nome e spesso il mio cognome lo pronunciavano le donne e gli uomini del vicinato, specie se combinavo qualche marachella.
A volte, più che col cognome, m’indicavano come su fizu de Angelinu Tedde, o semplicemente, fizu de Serefina Pira, dato che nella zona viveva una cugina di mamma, anziana, chiamata Serefina Soddu.
La mia identità veniva data anche dall’indicazione del rione in cui abitavo, sa Niéra, memoria persa di un’antica ghiacciaia oppure ricordo collettivo della neve che in quel pendio esposto a nord di Codinarasa, sostava più che in altre parti del paese; neve, così familiare tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Quanti candelotti di ghiaccio strappati alle tegole dei tetti bassi e consumati come gelati!
A ricordarti la tua identità poi, sempre nel vicinato, c’erano i compagni Giovannino e Ico Biddau, Faricu e Giovannina Tolis, Margherita e Giovanetta Biddau, i fratelli Pisanu e le sorelle Ruju-Cossiga, per dire soltanto dei ragazzi e delle ragazze. C’erano poi gli adulti: zia Domenica, zia Leonarda, zia Marietta, zia Nannedda, zia Mariantonia. Non sto a citare gli uomini le cui immagini si sono stagliate nella memoria cadenzate dall’incedere dei cavalli o degli asinelli che cavalcavano oppure a piedi, ricurvi, con la bisaccia ripiena e con gli arnesi da lavoro sulle spalle.
Infine, c’era la strada, via Garibaldi, e le strade e piazze adiacenti dove si andava a giocare rumorosamente: Caminu ‘e Litu, Piatta ‘e Caserma, Codinarasa su Mulinu ‘e su Entu.
Queste relazioni con le persone più vicine, con i luoghi presso cui sei vissuto, sono quelle che t’imprimono un marchio indelebile che solo la follia e la perdita totale della memoria possono toglierti.
Potrai vivere nelle lontane Americhe o in Australia, in Belgio o in Germania, in Piemonte o in Lombardia, a Varese o a Busto Arsizio, a Pinerolo o a Torino, a Catania o a Napoli, ma la tua identità non si cancella e con essa la memoria delle tue origini, con tutta la ricchezza delle emozioni che suscitano.
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Scritto da Gianluigi Marras
La parte più rimarchevole delle emergenze del sito è costituita dagli imponenti ruderi dell’antica parrocchiale di San Matteo, che occupano l’angolo nord-occidentale del pianoro di Monte Cheja.
Nonostante la solennità delle strutture mancano completamente studi architettonici e stilistici. Purtroppo la veloce degradazione di cui sono state oggetto, con il crollo e lo spoglio di molte murature, rende sempre più difficile la lettura del monumento. E se i recenti restauri hanno avuto il merito di bloccare (o rallentare?) il degrado e di consolidare la fabbrica, conseguenze non altrettanto positive ha avuto per l’analisi stratigrafica degli elevati. L’uso indiscriminato infatti di malte negli spigoli e nei punti di contatto fra i vari elementi architettonici, i rimaneggiamenti effettuati senza alcun rispetto delle tecniche originarie, donano si ai ruderi un candore piacevole a vedersi ma altresì appiattiscono e omogeneizzano le differenze originali.
In ragione di tale inibizione, oltre che della difficoltà dell’esame autoptico ravvicinato di varie porzioni del monumento, quella qui proposta non può che essere un’indagine incompleta e problematica in molti punti.
Si espongono di seguito dapprima una breve descrizione stilistico-architettonica della chiesa e, di seguito, i risultati dell’analisi stratigrafica dell’elevato[1].
Lo studio stratigrafico è stato svolto secondo una campionatura che ha interessato circa il 60% delle strutture. La selezione è stata fatta sulla base di tutta una serie di ricognizioni non sistematiche, che hanno individuato una serie di problematiche e punti da controllare[2].
La chiesa di San Matteo ha posto sin dall’inizio una serie di quesiti di seguito riassunti:
1) Si potevano individuare preesistenze architettoniche?
2) In caso affermativo, erano pertinenti a strutture civili o religiose?
3) Individuazione di eventuali fasi costruttive distinte della chiesa
4) Riconoscimento delle tecniche costruttive
5) Analisi delle dinamiche di cantiere.
6) Cronologie assolute
A indagine, almeno parzialmente, conclusa si può affermare che i punti 1 e 3 hanno avuto una risposta soddisfacente, i punti 4 e 5 una spiegazione limitata mentre per il punto 2 si sono solo potute formulare delle ipotesi non verificabili se non con le tecniche dello scavo stratigrafico. Il punto 6 infine non ha avuto alcuna risposta, a causa della mancanza di qualsiasi indicatore cronologico assoluto.
Ad una prima osservazione il complesso architettonico (CA) è stato suddiviso in undici corpi di fabbrica (d’ora in poi CF):
- Planimetria generale
§ CF 1, costituito dalla torre campanaria;
§ CF 2, cappella laterale orientale addossata al CF 1;
§ CF 3, cappella laterale orientale a sud di CF 2;
§ CF 4, cappella laterale orientale a sud di CF 3;
§ CF 5, cappella laterale orientale a sud di CF 4;
§ CF 6, la prima cappella laterale occidentale rispetto all’ingresso;
§ CF 7, cappella laterale occidentale, a nord di CF 6;
§ CF 8, cappella laterale occidentale obliterata, a nord di CF 7;
§ CF 9, abside quadrangolare;
§ CF 10, navata centrale della chiesa;
§ CF 11, cappella laterale occidentale rasata, a sud di CF 6.
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Scritto da angelino tedde
Il 1850 è un anno importante per lo sviluppo della Sardegna. Con Cavour Capo del Governo approdarono nell’Isola molti patrioti che avevano preso parte ai moti mazziniani e garibaldini scoppiati in varie pari della Penisola, repressi dalla restaurazione. Molti personaggi, che avevano rivestito anche incarichi importanti nelle istituzioni liberali e mazziniane che erano state stroncate dalla reazione conservatrice, facevano parte, come lo stesso Cavour, della Fratellanza Massonica, per cui la loro trasferta in Sardegna godeva di un certo appoggio governativo.
Era il momento in cui nell’Isola stava decollando l’industria mineraria; Giovanni Antonio Sanna stava cercando di ottenere la concessione della miniera di Montevecchio, e la banca Nicolay stava acquisendo la miniera di Monteponi.
Già nel1849 il modenese Enrico Misley, fervente carbonaro amico di Ciro Menotti, fortemente appoggiato da Torino, aveva chiesto di poter tagliare, in Sardegna, 100.000 quercie, ma la sua richiesta era stata bocciata per intervento di Alberto La Marmora.
La richiesta invece del romagnolo conte Pietro Beltrami fu accettata in considerazione dei suoi meriti patriottici. Il Beltrami, nato nel 1812 a Bagnacavallo, già da studente si era distinto come attivo propagandista liberale tra i colleghi dell’Università di Bologna. Diciannovenne si era arruolato nelle truppe rivoluzionarie del generale Zucchi, partecipando alla sfortunata battaglia di Rimini del 25 marzo 1831. Proscritto e poi graziato, aveva partecipato ai moti di Romagna del 1846, a seguito dei quali era stato costretto ad emigrare in Francia, dove si era occupato di bonifiche nel delta del Rodano. Rientrato in Patria a seguito dell’amnistia concessa da Pio IX nel 1848, aveva partecipato alla I Guerra d’Indipendenza. A Venezia col generale Giovanni Durando, dopo la sconfitta di Custoza si era ritirato a Torino dove era entrato in stretto rapporto col Cavour. Il suo operato in Sardegna è stato molto criticato al punto che lui venne definito “l’Attila delle foreste sarde”. Egli in verità disboscò indiscriminatamente molte parti dell’Isola, ma a sua discolpa bisogna considerare che molti Comuni dell’Isola, che dopo il riscatto dei feudi avevano ricevuto in demanio estese foreste, erano stati ben lieti di raggranellare qualche soldo dalla vendita del legname di queste, sia per ottenerne carbone che traversine ferroviarie, stante il boom dello sviluppo ferroviario dell’Europa in quel periodo.
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