5
ago
2011
Vita quotidiana e morte a Chiaramonti nell’Ottocento. Conclusione del lungo inventario del vicecurato Baingio Cabresu le cui parti sono apparse su questo sito a partire dal 13 aprile 2010. A cura di Angelino Tedde
Premessa:
Per dare l’opportunità ai lettori di riprendere il filo del discorso inseriamo la conclusione del pezzo pubblicato il 31 maggio 2011 e proseguiamo finalmente con l’ultima parte di questo interminabile inventario che, data la memoria ad alternanza della sorella, rischiava di non finire mai e, a quanto si dice nella conclusione, non sappiamo di quante altre cose si sia poi ricordata l’usufruttuaria dei beni del vicecurato che certo non ha praticato la povertà evangelica del curato Satta, fornito di beni più compatibili con la vocazione sacerdotale.
Inutile parlare della fatica di capire il manoscritto giacente tra i libri del Notaio Satta nell’archivio di Stato di Sassari e degl’innumerevoli lotti presenti nelle stanze della casa del vicecurato, degli atti, e dell’archivio mnemonico debitorio della sorella Francesca. Siamo arrivati, grazie a Dio, alla conclusione anche se, nell’inverno scorso le condizioni di salute sono state precarie al punto che rischiavamo di abbandonare per sempre l’inventario, ritenuto “maledetto” perché con la trascrizione di esso, con nostro grande dolore di cristiano, ma con la verità legata ai documenti, abbiamo messo in luce l’affarismo smodato di questo ecclesiastico che sia pure con incredibile confusione tra compravendite, debiti e cause legali deve aver passato la vita ad accumulare beni, forse, più che a darsi all’apostolato tra i chiaramontesi. Che Iddio, nella sua grande misericordia, lo abbia perdonato e che perdoni anche noi che gli “abbiamo letto la vita” e resa pubblica la sua ricchezza (i suoi debiti e le sue liti) a 178 anni dalla sua morte (1833-2011). Noi non l’abbiamo fatto con l’intento di gettargli fango addosso, come si usa fare oggi dai quotidiani e periodici, da piccoli e grandi blog e dagli altri mass media, ma piuttosto per la passione storica che più invecchiamo e più ci divora.
Vita quotidiana a Chiaramonti:
Siamo nei primi anni Trenta (1834) dell’Ottocento, epoca della dura Restaurazione dopo l’epopea rivoluzionaria e napoleonica che non si sa se per fortuna o sfortuna (1789-1814) non scombussolò l’Isola. Restaurazione che durerà fino al 1848, quando anche la Sardegna, fondendosi col Piemonte, otterrà lo Statuto Albertino ed entrerà a pieno titolo nell’epoca risorgimentale con tutte le contraddizioni di una liberaldemocrazia monarchica ancora sotto il giudizio degli storici che, poveracci, qualunque cosa scrivano non fanno indietreggiare il tempo e spesso sono ignorati dai contemporanei, essendo presi più dai problemi quotidiani che non dal tempo passato, per quanto ci si affanni per resuscitarlo nel bene e nel male. Del tempo si può dire come di quella favola che si conclude dicendo “Tu dormi alle mie grida disperate, il gallo canta e non ti vuoi svegliare”. Lo storico fa la parte del gallo, ma senza successo.
Per dire di Chiaramonti questo è il periodo in cui vivevano, spesso 40 o 50 anni i nostri trisavoli, (il mio, ad esempio, Giovannandrea Tedde-Cossiga visse 51 anni, si sposò due volte, prima con una Cossu chiaramontese, la seconda con una Ribichesu ploaghese; dalla prima ebbe 6 figli, dalla seconda 4). In paese funzionava la scuola normale con circa una quindicina di scolari sotto il precettore bosano ex carmelitano Salvatore Masala (anche lui affarista come Cabresu). La popolazione si aggirava sui 1500/1800 abitanti. Fungeva da parrocchiale San Matteo al Monte, ma col maltempo era utilizzato l’oratorio della Santa Croce nell’area di sedìme dell’attuale parrocchiale. In questi stessi anni ricevemmo la visita dello scolopio Vittorio Angius che ci presenta un quadro storico sociologico del paese (agricoltori al primo posto, pastori, artigiani, circa 50 telai; frutteti e vigne a profusione, cavalli e asini numerosi, oltre all’allevamento delle pecore: maiali e animali da cortile e molta selvaggina per la caccia) Per farla breve, economia di sussistenza detta del maiale.
Vita quotidiana in campagna per gli agricoltori dalle prime ore dell’alba al tramonto e per i pastori e urbana per gli artigiani e per le madri di famiglia che pare, dagli atti, prolificassero generosamente come anche morivano spesso nel parto, mentre la mortalità infantile cresceva dopo i 2 anni. Fonte e lavatoio quasi quotidiano per le donne, che dovevano pensare ai bambini, agli animali da cortile, alla provvista dell’acqua e alla pulizia delle case, in genere in terra battuta, e delle strade senza acciottolato, alla panificazione in casa ogni 15 giorni, e spesso agli abiti per piccoli e adulti. Interrotta purtroppo precocemente nel 1830 la modernizzazione professionale delle sorelle Della Bella.
Comunicazione commerciale per mezzo dei banditori e altre notizie dai viaggiatori e dagli spostamenti a piedi o a cavallo tra i borghi vicini e Sassari. Il baratto più della moneta era il sistema di scambio tra le varie famiglie. Gli stessi lavoratori venivano pagati con frumento e legumi e latticini. Nelle feste si poteva assaggiare la carne e nei giorni feriali, con una pasto al giorno, in genere serale, ci si riempiva lo stomaco. Un centro sobrio, ma tra i più provvisti dell’Anglona. I terreni della Comune (istituita nel 1771 con la nomina di un sindaco e tre consiglieri) dati alle famiglie per le colture a rotazione. Un giudice luogotenente provvedeva ad amministrare la giustizia e, si fa per dire, a tenere a bada i delinquenti, spesso spinti al furto di ogni genere di prodotto (legumi e frutteti, ma soprattutto bestiame ovino e caprino).
Presenti in paese un buon numero di graduati all’Università (maestri d’arte, bacellieri, licenziati, laureati) sia laici che ecclesiastici, sempre disponibili a prestare servigi gratis o a pagamento alla maggior parte degli “illetterati” analfabeti. Gli artigiani, i nobili in decadenza e i borghesi in formazione non mancavano anche se per i poveri agricoltori era disponibile, a poco prezzo, il monte frumentario, gestito dalla Chiesa, e l’assistenza dei poveri era garantita dalla generosità dei compaesani, obbligatoriamente cattolici, forzatamente praticanti, specie quelli residenti in paese, più trasandati e scusati i residenti nelle campagne. Il governo del re e della Chiesa, con la duplice obbedienza di cristiani e di sudditi, garantiva la “felicità” dei regnicoli sardi.
La lingua ufficiale era ormai l’italiano, e in alcuni strati lo spagnolo, anche se la maggior parte della popolazione parlava il sardo logudorese settentrionale e i preti e i predicatori diocesani o regolari spesso facevano le allocuzioni al buon popolo di Dio in lingua sarda. Del resto lo stesso teologo Cossu, rettore di Plaghe, col suo catechismo dava l’opportunità agli alfabetizzati e alle maestre della dottrina cristiana (catechiste) di studiare le domande e le risposte sui misteri della fede. Nel complesso, così come abbiamo già visto dagli atti che vanno dal 1826 al 1934, gli strati sociali che andavano formandosi erano quello agiato dei nobili, del clero e della borghesia; degli artigiani e dei letterati; dei proprietari, a seconda dei loro possedimenti, e dei disagiati che certamente rappresentavano buona parte della popolazione anche se, su questi strati sociali, si richiederebbero studi quantitativi e qualitativi, desumendoli da un’analisi attenta, più che dai regesti come dobbiamo fare noi, dagli atti pubblici, quando un’amministrazione illuminata e con disponibilità finanziaria potrà farli scannerizzare e mettere a disposizione dei numerosi giovani studiosi che ormai in paese non mancano in tutte le discipline, comprese le lingue estere.
Un’ultima osservazione, sotto il governo regio e della Chiesa, i giorni festivi lungo l’anno, oltre le cinquantadue domeniche, comprendevano altri quaranta giorni e complessivamente 100 giorni su 365. Le festività riferite a Cristo e alla Vergine, al patrono San Matteo, a particolari santi come Santa Giusta, San Sebastiano e Santa Maria Maddalena, San Francesco Saverio e ad altri Santi, al ciclo del tempo (primavera-bendizione dei campi- estate-mietitura-, autunno-vendemmia-, inverno-feste di Natale) e della vita ( battesimi, cresime, matrimoni, sepolture) erano allora momenti più socializzanti e di scambio gratuito di doni più di quanto oggi non avvenga nelle sagre laiche o religiose dove le tradizioni, fatte le dovute eccezioni, sembrano mandate in soffitta.
In questo contesto storico-culturale, sia pure sommariamente descritto, va a collocarsi il caotico e succulento patrimonio del vicevicario Cabresu, certamente di origine agiata, di cui è usufruttuaria l’anziana sorella, ma che è destinato alle nipoti come i nostri lettori possono constatare. I vari lotti mettono in risalto le proprietà come nelle precedenti parti (terreni e case e crediti) ma soprattutto debiti, saldati dalla sorella con i soldi del fratello sui quali l’inventario della collocazione niente dice, ma che fa supporre consistente dal momento che lei ha provveduto a pagarli in gran parte da qualche parte deve pure averli presi. I lettori si possono ora sbizzarrire stampando l’intero inventario e abbandonandosi all’ebbrezza dei calcoli del patrimonio, dei debiti e dei crediti, dell’ubicazione delle case e del nome dei terreni e dei personaggi che compaiono. Anche noi, se avremo tempo, ci sollazzeremo sui dati, ma ora siamo davvero stanchi e chissà che non se ne parli più in là. Per ora riprenderemo i regesti di compravendita, dei testamenti e dei censi per giungere fino all’ultimo anno che è il 1867. Per ora buona lettura!
Nota. Come le altre volte sono nostri i numeri dei lotti, qualche correzione nella punteggiatura, per rendere agevole la lettura ai visitatori di ztaramonte. Abbiamo omesso le note a piè pagina che intendiamo inserire in un eventuale edizione cartacea se avremo, a Dio piacendo, l’opportunità di pubblicare questi lavori.
L’ultima parte dell’inventario
(31) più altri due tratti in Santa Giusta de Runaghe Longu d’estensione, entrambi di sei starelli circa di grano (…) così si concludeva la penultima parte dell’inventario qui pubblicata per proseguire
“(1) più un chiuso disfatto nel vicinato del villaggio, a luogo detto sa Terra Ruja, che l’acquistò secondo stromento rogato allo stesso Notajo nelli Venti tre Maggio mille ottocento ventinove, (2) altro piccolo tratto di terra, che li fu lasciato in legato dalla vedova oggi defunta Giovanna Satta, nella regione Santa Giusta de S’abba d’estensione starelli sei circa di grano, secondo testamento rogato al detto Notaio Giovanni Satta nei trent’uno luglio mille ottocentotrenta, più si dichiara d’averli la su detta Giovanna Satta lasciato (3) una casa, che trovasi sotto di Santa Croce, entro questo popolato, per celebrare in messe d’intrinseco valore, al qual non vi adempie, e per tale sarebbe di pertinenza della causa pia, deducendone però la somma di trentatre scudi, che per riattarla mentre andava a perire vi avrebbe speso dal suo proprio,(4) più numero tre case e a corte attigua, che situata trovansi, entro lo stesso villaggio, in strada detta Piatta, quali secondo testamento del fu sacerdote Cabresu vengono lasciate in usufrutto a Maria Domenica Annega Cabresu,(5) più una vigna, ossia porzione della medesima, cioè quella, che acquistò dal fu Salvatore Mudadu, (5) più dice la suddetta inventariante aver lasciato sovranominato fratello Sacerdote Cabresu dieci corbule, (6) due setassi di seta, e (7) due piccoli corredi di canapa, e (7) una spilla d’argento con un reliquiario incastonati in argento, (8) più un secchio ossia catino piccolo,(9) una griglia di ferro, più resterebbero (10) (un credito) dovendo la somma di scudi undici sardi Vincenzo Unali. (11) Starelli cinque grano Forrigja, e (12) la somma di scudi sardi cento la Nobile Vedova donna Annica Solinas, sebbene questa per siffatte ragioni, avrebbe intentato una lite, (12) più presenta la più volte nominata inventariante alcune somme pagate varie ricevute consistenti, (13) scudi quattro al dottor Medico Salvatore Bassu, (14) diciannove reali al padre Bonaventura Dessanti, (14) lire otto, e soldi cinque a Francesco Pinna, (15) scudi quattro, e reali cinque al falegname Lorenzo Casu, (16) scudi otto e soldi due e mezzo al nobile avvocato Don Efisio Berlinguer, (17) tre lire, sedici soldi, e quattro Contributi Regi del mille ottocento trentatre, (18) più dice di aver pagato senza ricevuta al Dottor Antonio Tolu di Nulvi lire dodici e mezzo (19) a Salvatore Manunta per accomodare una stoja; (19) lascia soldi diciasette e mezzo, per residuo di salario d’uno stromento al Notajo Giovanni Satta (20) una lira e mezza per il testamento all’infrascritto Notajo (21) otto lire e cinque al negoziante Pietro Maria Romanacci (22) sei lire, sedici soldi, e sei dinari, dati per limosina a poveri (23) quattro lire e mezza, (24) più dodici messe basse nel giorno dell’obito, settimo, e trigesimo quattro lire e mezza, (25) per funerali fatti nel Convento del Carmine sei lire e (26) cinque per trovaglioli di lino, (27) tra paga e alimenti cinque lire, (28) per incenso alli funerali tre soldi, (29) più dichiara parimenti l’inventariante Cabresu (Francesca) dover soddisfare e (30) pagare scudi diciotto in Messe, parimenti (31) scudi ventidue al Sacerdote Antonio Maria Domianu, come eziandio (32) esservi sette starelli di grano al legato di San Matteo, lasciato dalla fu Donna Lucia Tedde, (33) scudi undici porzioni arretrate che si devono pagare a questo convento. Sarebbesi anche da pagare medicine prese per uso dell’ultima infermità nel quale morì il succitato Cabresu Sacerdote; più dice anche d’aver pagato per salario all’Avvocato Virdis di Sassari, che protegge il litigio portatosi colla succitata nobile Solinas (34) lire sarde sedici e mezza, più dichiara sarebbe per toccare al suddetto fu Sacerdote Cabresu (35) la porzione dei beni, tanto mobili che stabili lasciati dalli furono genitori Giovanni Vincenzo Cabresu e Maria Angela Sanna, come si apprendeva dallo stromento divisorio, che segnavasi con più eredi, finalmente dice la stessa inventariante che il fu suo fratello fin dall’anno mille ottocento ventiquattro resterebbe dovuto a questi Monti di Soccorso la somma di (36) scudi sette e mezzo, con accessorj, e si termina per oggi il presente lavoro fino ad altro giorno, e non soscrive la detta inventariante perché illetterata, come dice.
Testi presenti ben cogniti sono il Notajo Antonio Cabresu, che soscrive, e Vincenzo Unali, che non soscrive per ignorarlo come dice.
Notaio Antonio Cabresu Teste Giovanni Maria Satta pubblico Notaio Alli Ventiquattro Giugno mille ottocento trentaquattro in Chiaramonti
Nel terminare il presente inventario, fece memoria detta inventariante di essere stata accertata (36) di lire undici e soldi tredici e mezzo come da ricevuta, che presenterà, (37) scudi tre per affitto della casa detta stalla alla vedova Antonina Satta; (38) starelli quattro grano al dottor Tolu di Nulvi (39) per due anni di salario lire cinque in verbali veduti, (40) soldi sei ad Antonio Fadda per una giornata, più altri (41) scudi cinque al Sacerdote Antonio Maria Domianu, come da ricevuta del medesimo; (42) più scudi sardi sessanta, che incaricò alla inventariante sopra l’anima per certi motivi di coscienza, come ne parlò anche allo stesso confessore, più (43) un molentargiu bulu, (44) un catino per uso d’acqua, (45) una sedettajola, avendo fatto memoria nel letto, che morì detto defunto, esservi solamente il materasso, pure si ricorda oggi di essere il detto letto tutto dell’accennato defunto complessivamente alla tavola (45) più scudi sessanta dati ad Andrea Cabresu, secondo le epoche di acquisto fatto dal detto defunto, ed (46) altri scudi sessanta di accomodamento nella stanza nuova, che cessò di vivere detto defunto, (47) numero tredici piatti di fuoco; (48) più starelli due di grano allo chirurgo Flebotomo Cossiga, ed Addis per loro salari; (49) più le spese del presente inventario , come da ricevuta che presenterà; più se pagasse qualche altra cosa, che resterebbe dovendo l’accennato defunto, promette domandare la ricevuta. Questi e non più dice detta inventariante, essere i beni lasciati dall’accennato defunto suo fratello sacerdote Baingio Cabresu; la quale confessa aver proprio e di farne esatti conti a chi di ragione e quando li verranno chiesti, riservandosi illesi, e di innumeri tutti i suoi diritti, nei quali non intende pregiudicarsi, e quando venga a sua notizia d’essersi dimenticata altri beni, oltre quelli sovra descritti, promette ridurli in nuovo inventario, secondo così lo afferma, con obbligo dei suoi beni e non soscrive per ignorarlo come dice, così lo giura a mani dell’infracritto Notaio altra seconda volta
Testi presenti ben cogniti, sono Vincenzo Unali e Vincenzo Fiori, che non soscrivono per ignorarlo, come dicono.
Giovanni Maria Satta publico Notajo
Sono lire cinque sarde dovute all’infrascritto Notajo per salario del presente, lire due, e soldi dieci per diritto Regio e soldi quindici per insinuazione tabellione, a Monte di Riscatto.”
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Un’amico, cultore di storia chiaramontese, dopo aver letto l’articolo, mi ha inviato queste ossservazioni che condivido in pieno. Lo ringraziando vivamente per la correzione delle mie sviste ed errori e per il suo contributo alla riflessione storica. I numeri di richiamo li ho aggiunti io.
1. Lei scrive, riguardo ai giorni festivi, che in un anno vi sono 60 domeniche, in realtà sono 52.
2. La sorella del Cabresu, Francesca, probabilmente pagò i debiti cedendo beni mobili o immobili.
3. Dai diversi debiti in onorari per medici e in medicinali emerge che (Cabresu) doveva avere una salute malferma.
4. Il cercare di aumentare il proprio patrimonio, a quel tempo, può essere visto anche in funzione “pensionistica”;. Infatti all’epoca non esisteva alcuna assistenza sociale e solo cedendo beni o dai frutti di essi si poteva sperare in cure ed assistenza in generale (in particolare se obbligati a letto). Nei paesi spesso non vi erano incarichi retribuiti sufficientemente ed anche qualora vi fossero stati non esistevano pensioni di vecchiaia. Spesso queste funzioni erano svolte dalle famiglie, ma significava pur sempre un aggravio per esse.
5. Inoltre voleva essere un modo per migliorare le condizioni economiche dei parenti una volta passati a miglior vita, tutto ciò è forse poco evangelico, ma molto umano.
6. Il padre, il flebotomo (1778) Giò Vincenzo Cabresu, non era ancora morto (1749-1839).
7. La questione riguardante l’eredità paterna e materna probabilmente atteneva la costituzione del suo patrimonio sacerdotale che poteva aver leso la legittimità dei fratelli e sorelle.
8. Sac. Antonio Maria Damiano (non Domiano)
9. Forrija (non Forrigja)
Angelino Tedde
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