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mag
2012
Studi storici sui dialetti della Sardegna Settentrionale di Mauro Maxia – Capitolo 6
Capitolo 6
Le palatalizzazioni nei dialetti della Sardegna settentrionale
Da un punto di vista sincronico, sulle palatalizzazioni che caratterizzano i dialetti della Sardegna settentrionale si può affermare che gli studi condotti fino ad oggi hanno detto praticamente tutto quello che era ed è possibile osservare. Alle indagini di Wagner e Bottiglioni si sono aggiunte, alcuni anni fa, le osservazioni di Paulis che hanno completato in modo esaustivo il quadro delle conoscenze sull’argomento. Non solo, le analisi strumentali di Contini consentono perfino di individuare le linee evolutive del fenomeno, la cui vitalità, almeno per quanto attiene alle aree periferiche rispetto all’epicentro dell’innovazione, non sembra essere giunta al termine. Ciò si comprende bene se si inserisce questo discorso all’interno di un orizzonte in cui agiscono altri fattori che concorrono alla dilatazione o, al contrario, alla regressione delle innovazioni di tipo linguistico. Fattori che altri studiosi hanno da tempo individuato nel prestigio che una determinata varietà può acquisire a seguito dell’espansione della sfera d’influenza politica, economica, amministrativa e culturale da parte dell’area demografica di cui è espressione.
Successivamente da tale area l’innovazione può propagarsi a quelle finitime oppure può essere “paracadutata” in una exclave, in genere rappresentata da un centro più evoluto rispetto ad altri, e da quest’ultimo seguire autonome vie di espansione.
Tutto ciò da un punto di vista sincronico. Dal lato diacronico le cose sono meno pacifiche e non può essere altrimenti se si considera che la conoscenza storica di un fenomeno linguistico si basa su documenti che, tuttavia, a volte possono mancare o essere insufficienti per una loro descrizione puntuale. Wagner nella sua magistrale opera sulla fonetica sarda (HLS), poi ampliata da Paulis (FSS), riuscì a portare a sintesi queste conoscenze, sintesi di cui, considerato il periodo durante il quale svolse le sue indagini, le conclusioni sono largamente da condividere. La successiva edizione, da parte del Sanna, del Codice di S. Pietro di Sorres consentì di disporre di un testo fondamentale per un più esauriente inquadramento della questione.
Nell’introduzione alla fonetica wagneriana Paulis si è valso puntualmente dei nuovi dati per tracciare il nuovo orizzonte, ormai quasi definitivo, al quale le nostre informazioni sono pervenute.
In generale le conclusioni di Wagner sono state convalidate, con qualche distinguo, dagli autori successivi, i quali in pratica hanno operato una retrodatazione dell’insorgenza delle palatalizzazioni rispetto al sec. XVI. È questo infatti il periodo che il linguista tedesco, sulla scorta degli esperimenti poetici dell’Araolla, assumeva come riferimento cronologico. Non che egli non avesse intravisto, in fonti anteriori, sporadiche interferenze che segnalavano una più antica insorgenza del trattamento. Wagner, anzi, individuava in un nucleo di documenti del sec. XV, pubblicato dal Tola nel suo monumentale Codex, altri dati utili per una più soddisfacente datazione della fase in cui l’innovazione in questione prese piede per poi consolidarsi. A tale nucleo appartiene, per l’esattezza, anche una parte del citato Codice di Sorres, già pubblicata dal canonico Giovanni Spano poco dopo la metà dell’Ottocento. 144
Sta qui, appunto, il nòcciolo del discorso che, giunto a risultati ormai acquisiti sul versante sincronico, stenta a trovare una precisa definizione storica. Wagner, con la prudenza che lo distingueva, tendeva a descrivere i singoli fenomeni in presenza di una documentazione ricca che lo mettesse al riparo da sviste sempre possibili in una disciplina che difficilmente ammette approssimazioni. Ma forse in questa tendenza è da scorgere una minore propendenza del grande tedesco all’analisi dei fatti storici sia pure in chiave linguistica. Un chiaro indizio in tal senso è rappresentato dalla sua adesione, sorprendentemente acritica, alla teoria delle “mortalissime pestilenze” addotta da Vittorio Angius per giustificare la nascita del dialetto sassarese.
Teoria che, a suo tempo accolta anche dal Tola, non trova giustificazioni né sul piano storico né su quello più strettamente metodologico. La breve premessa di carattere esegetico ha la funzione di mettere in luce che a Wagner non mancarono i dati per un più preciso inquadramento diacronico della questione (cfr. FSS, pp. 262, 265). In tale contesto sfuggono i motivi per cui egli non tenesse conto di determinate forme mentre si serviva di altre che risultavano più utili, dal suo punto di vista, ai fini della discussione. Si tratta di un aspetto che può essere dimostrato per ben due volte a proposito degli Statuti di Castelsardo, fonte che egli dimostra di conoscere bene, avendola citata spesso nelle sue opere.
È il caso, per esempio, del log. áskra < ASC’LA (FSS, § 256; DES I 133); citando il cap. 214 di quella fonte egli riportava la forma ascla, ma il testo pubblicato dal Besta (p. 35) riporta chiaramente la forma aschia che ha ben altro valore rispetto ad áskra. Mentre infatti quest’ultimo lessema significa “scheggia”, la forma riportata nel codice di Castelsardo vale “ascia, scure”. Si tratta quindi di due unità lessicali del tutto diverse, derivando aschia dal tosc. áscia.
Che questa sia la sostanza dei fatti è confermato dal cap. 211 degli stessi Statuti, in cui si rileva la grafia ascha, la quale sembra prefigurare la forma áša attualmente attestata a Castelsardo e nella circostante regione dell’Anglona. E non poteva essere altrimenti, dato che il nesso maistros de asch(i)a riportato nei suddetti Statuti è rifatto sul tosc. mastro d’ascia “falegname”. Esso si riflette puntualmente nei dialetti del settentrione sardo (mástru d’ascia) mentre il sardo genuino ha mastru de linna (DES II 87).
L’atteggiamento di Wagner è rilevabile, sempre al riguardo degli Statuti di Castelsardo, anche per il lessema márghine. In DES II 74, discutendo questo lemma, egli si rifaceva al cap. 169 (in verità si tratta del cap. 168), citando la grafia sa marghine. In realtà questa forma non esiste nella fonte castellanese, la quale nel capitolo 168 riporta una prima volta campu de marchine e poi sa maschine (Besta, p. 24). Proprio questa forma, che Wagner travisava inspiegabilmente, si rivela importantissima per il discorso relativo alla risoluzione aspirata della consonante laterale nei dialetti della Sardegna nord-occidentale.
Naturalmente non si vogliono mettere in discussione gli enormi meriti del linguista tedesco, che era e resta l’indiscusso maestro della linguistica sarda oltre che uno dei più grandi romanisti del Novecento. Tuttavia nei casi cui si è accennato egli non seppe (o non volle) servirsi di dati utilissimi per inquadrare con precisione il radicamento di risoluzioni di tipo continentale che, pure, postulava. Così facendo si precluse la possibilità di ricostruire la storia di tali trattamenti e, con essa, di argomentare con maggiore cognizione sulla nascita del dialetto sassarese e della varietà settentrionale del sardologudorese.
Vediamo ora quali sono le attestazioni più antiche delle palatalizzazioni di tipo continentale nella parte settentrionale dell’isola.
CL > č (> ts)
La più antica attestazione di questa risoluzione è rappresentata dalla citata grafia aschia “ascia, scure” (Stat.Cast., cap. 214). Trattandosi di una grafia tributaria del sintagma tosc. mastro d’ascia ed essendo per giunta isolata nel contesto di una fonte che presenta immutato il nesso -gl-, è difficile sostenere la vigenza dell’innovazione a Castelsardo nel 1337.
D’altra parte sappiamo per certo che nel medesimo periodo questo borgo era abitato in misura maggioritaria da còrsi o da discendenti di coloni còrsi. Che il còrso fosse parlato nel medesimo periodo in cui venivano promulgati gli Statuti è indiscutibile. L’apparente contraddizione si spiega facilmente col fatto che, mentre il còrso era una varietà parlata da singole colonie sparpagliate nei più vivaci centri costieri, il sardo era sempre la lingua ufficiale del regno. Peraltro, la redazione del codice in sardo aveva l’evidente funzione di rendere applicabili le norme nei villaggi del contado, costituito dalla regione dell’Anglona, che ancora oggi conta un numero di centri sardofoni maggiore di quelli corsofoni.
Più numerose sono le attestazioni contenute negli Statuti di Sassari. La prima è rappresentata dalla grafia sechiu (Stat.Sass., I, XLI), concrezione di s’echiu, forma che presenta l’elisione e l’apocope contestuali rispetto al nesso su [b]echiu “il vecchio”.
Trattandosi di un toponimo (Fronte de s’Echiu) la sua insorgenza sarà da inquadrare in un periodo anteriore a quello in cui furono redatti gli Statuti di Sassari. Tale fase sembra da identificare con la seconda metà del Duecento. La grafia in questione testimonia infatti di un periodo in cui la palatalizzazione già faceva il suo ingresso nell’originario logudorese di Sassari ma non si era ancora evoluta nelle rispettive forme logud. béttsu e sass. bécciu.
L’aggettivo [b]echiu occorre anche nel cap. CVI del primo libro, ancora a proposito di un toponimo, sechiu populare, da ricostruire in su bechiu populare “l’antico territorio comunitario”. Il fatto che le occorrenze più antiche si ritrovino in contesti toponomastici rappresenta un forte indizio circa la vigenza di queste risoluzioni nel parlato. Mentre infatti i notai tendevano a ricondurre l’innovazione all’interno della norma, i toponimi sfuggivano a questa dinamica perché venivano percepiti come forme ormai consolidate che si sottraevano a un restauro etimologico, in quanto era reale il rischio che potessero non essere riconosciuti dagli utenti nella loro funzione di precisi riferimenti geografici.
Fra le due occorrenze di [b]echiu si rileva, nella stessa fonte, la forma mischiata (Stat.Sass., I, cap. XVIII) che rappresenta un evidente toscanismo ma non è, come potrebbe apparire, un prestito tout-court. La grafia mischiet (Stat.Sass., I, cap. XCIX) assicura infatti che il verbo mischiare, pur non essendo attestato direttamente, era di uso comune. 145
L’insorgenza dei suoni palatali, che a Sassari convivranno a fianco delle forme genuine ancora fino alla prima metà del Quattrocento, è convalidata dal cap. XLIII nel quale occorre la grafia succhiata “divelta” < SUC’LATA che sembra essere ripresa tale e quale dal tosc. succhiare.
Nel Quattrocento le occorrenze si fanno più numerose, a testimoniare che le risoluzioni palatalizzate avevano guadagnato terreno a danno dei nessi genuini. È il caso dei seguenti lessemi:
1. ruchiu (II, XLVIII; post 1453), rughiu (II, L), lettm. “gualdana”, forma soppiantata dal logud. bardána, ma che si conserva ancora in Corsica con la forma rócchju “banda, compagnia” (Falcucci, p. 301).
2. maschiu “maschio” (II, L), forma intermedia rispetto al logud. ant. masclu e all’odierno logud. e sass.-gall. mášu.
3. horigia, orighia “orecchio” (II, LIX), forme che documentano il passaggio dal logud. ant. oricla (origla) al logud. sett. oríìa, oríja, oríža. Coevo del II libro degli Statuti sassaresi è il Codice di San Pietro di Sorres, che costituisce la fonte più ricca per la documentazione del trattamento CL > č. Le grafie che attestano questo processo sono le seguenti:
1. quiamadu “chiamato” (n. 232; a. 1424); c[i]amarlu “chiamarlo” (n. 43; a. 1432); chiamat “chiama” (n. 96; a. 1455); sono forme che si discostano dal logud. ant. clamare (che risuona ancora nella grafia clamare della scheda n. 30) mentre sono piuttosto vicine al corso e al gallur. chjamá “chiamare”; specialmente la seconda documenta un costrutto estraneo al sardo che di norma antepone il pronome al verbo (lu čamare) mentre il còrso e il gallurese hanno rispettivamente chjamarlu e chjamállu.
2. chiae “chiave” (n. 188; anno 1480), forma intermedia fra il logud. ant. clave e l’odierno logud.sett, čáe, ğáe, sass. ğái; il gallurese, varietà più vicina al còrso, ha l’esito c’´ái che dalla suddetta grafia si discosta unicamente per la desinenza.
3. ischia “terreno alluvionale fertile spesso interposto fra rami fluviali” < INS(U)LA (s. 162; a. 1476); pur disponendo di stringenti confronti col meridione italiano (cfr. il noto toponimo Ischia “isola”), sembra una formazione insorta autonomamente sul modello di maschiu.
Un discorso a parte va fatto per il toponimo Chiaramonti, grafia che presupporrebbe una precedente forma Claramonte. Nel Codice di Sorres, però, sono attestate le grafie Çaramonte (s. 8), Zaramonte (s. 35) e Saramonte (s. 269) che postulano una base Th-. Questo dato si dimostra del tutto coerente con la prima attestazione del villaggio, relativa a un documento del 1388, in cui risulta la grafia Çaramonte (CDS, II, doc. CL). Al 1412 risale la grafia Çiaramonte (CDS, II, doc. XV, p. 52), che appare una forma di compromesso fra la forma autoctona Tzaramònte e quella sassarese Ciaramònti, che doveva essere già vigente. È probabile che le forme Claramontis e Claramonte, documentate in epoca successiva, rappresentino dei cultismi insorti per l’influsso esercitato dal gentilizio iberico Claramonte, sul quale appare rifatta la denominazione ufficiale attuale.
GL > gj
La testimonianza più antica della palatalizzazione del nesso GL si rileva in un documento del 1416, nel quale è riportata la grafia Anghioni per “Anglona”. 146 Si tratta probabilmente di una forma non autoctona, più probabilmente sassarese, da confrontare col còrso anghjòne “angolo, canto” (Falcucci, p. 70), valore che corrisponde a quello del coronimo Anglona, il cui significato letterale è quello di “porzione delimitata di territorio”. 147 Successivamente, con l’ufficializzazione delle denominazioni dei feudi istituiti dai conquistatori catalanoaragonesi, il nesso di questo coronimo venne restaurato in gr (Angròna) secondo l’uso generale del sardo.
BL > bj
La prima attestazione della risoluzione bj < BL è abbastanza tarda; essa è relativa al nome pers. Fiasu < BLASIUS, documentata nel Codice di S. Pietro di Sorres in una scheda del 1485 (s. 103).
Il nesso in questione, poco ricorrente nelle fonti del periodo, tende piuttosto a recepire la risoluzione br, come attesta la scheda n. 306 del medesimo codice, in cui è registrata la forma Fraxu (sempre che non si tratti del cognome Frassu).
In ogni caso in Sardegna la tendenza è attestata già per il pisano antico nel Breve Portus Kallaretani (CDS, I2, pp. 644 segg.), dove al cap. V si rileva la forma pubrico per “pubblico”
E lo stesso logud.sett. ha frastimare “bestemmiare” <BLASTIMARE (DES I 543) rispetto al sass. ğaLtimmá e al gall. ghjastim(m)á che derivano dal genov. giastemmá.
PL > pj
Le attestazioni più antiche sono della prima metà del Quattrocento e sono contenute nel CSPS.
1. pius < PLUS (s. 39, a. 1429; s. 23, a. 1445); corrisponde all’odierno logud.sett. piúsu.
2. piachat “piaccia” (s. 340, a. 1446; s. 159, a. 1475); piaghet “piace” (s. 301; a. 1449); la prima forma documenta la fase intermedia fra il logud.ant. placat e il logud.sett. piágada; la seconda corrisponde già all’odierno esito logudorese settentrionale.
FL > fj
Anche per la risoluzione fj < FL vale il discorso fatto per quella precedente.
1. fiores “fiori” (s. 153; a. 1482); la forma corrisponde all’odierno esito logudorese settentrionale.
2. affischat “conclude, termina” (s. 87; a. 1457); rappresenta lo sviluppo del logud.ant. affliscare; il logud.sett. presenta affrišáre, esito in cui il nesso FL è stato restaurato in fr secondo la risoluzione che si è imposta nel logudorese comune, nel nuorese e nel campidanese.
Esiti come ischia, che sono da confrontare con la grafia aschia documentata negli Statuti di Castelsardo, dimostrano che il processo di palatalizzazione, una volta affermatosi nel settentrione sardo, acquisì una sua autonoma capacità di rimodellare forme autoctone secondo l’innovazione continentale.
Molti studiosi hanno sostenuto che l’area originaria dell’innovazione è costituita dalla Toscana. Che questa regione sia uno degli epicentri del fenomeno delle palatalizzazioni appare fuori di dubbio, anche se non fu il solo. Ma il luogo di partenza dell’innovazione, per quanto riguarda la Sardegna settentrionale, non fu la Toscana bensì la Corsica. L’isola vicina aveva accolto per tempo questo trattamento, forse con la prima colonizzazione attuata dai Pisani già prima del Mille.
Nel Duecento la conquista di metà dell’isola da parte genovese non aveva alterato questo quadro, in quanto anche la Liguria, seppure con caratteri suoi propri, aveva aderito all’innovazione. Pertanto, quando già durante il XIII secolo la corrente migratoria còrsa verso la Sardegna si fece più consistente, essa portò nell’isola maggiore questo particolare trattamento.
A livello filologico questo aspetto è documentabile attraverso alcune interferenze che, qua e là, emergono dal tessuto di documenti redatti in logudorese. Il Codice di San Pietro di Sorres rappresenta, ancora una volta, una fonte prodiga di informazioni. Nella scheda n. 32, che è una delle più antiche, (anno 1425) è ricordata una lite fra un tale Andriuçiu de Sogiu e il canonico Baltramu Solinas, che il primo accusa di avergli rubato centocinquanta tegole; a un certo punto del documento compare il lessema quisu (“…sa dicta teula fuit a quisu muntone…” “…le dette tegole facevano parte di codesto mucchio”), grafia che corrisponde al còrso oltremontano quissu “codesto” oppure al sass.-gallur. kíssu nel caso che col digramma qu- lo scriba volesse rendere l’occlusiva velare sorda. Non solo, ma lo stesso costrutto “fuit a quis[s]u muntone” è estraneo alla sintassi del sardo, secondo la quale la medesima locuzione suonerebbe “fuit in cussu muntone” (“era in quel mucchio”) oppure “fuit de cussu muntone” (“faceva parte di quel mucchio”).
Ciò dimostra che lo scrivano, pur servendosi del sardo in quanto lingua parlata nella circoscrizione ecclesiastica di Sorres, doveva essere di origine còrsa o semplicemente un sassarese di parlata còrsa. E che nella diocesi di Sorres fossero presenti oriundi còrsi si dimostra facilmente citando alcuni personaggi ricordati nel suddetto codice, come il canonico Cataçolo, vicario vescovile; l’arciprete Johanne Ogana, il cui cognome è originario del villaggio corso di Òcana; il canonico Johanne Luforçolu, forse originario del villaggio corso Forciólu; l’arciprete Leone Ganuzazu; il prete Johanne Delitala, il cui cognome rimanda a una famiglia signorile còrsa.
Ma sarebbe sufficiente, ai fini di tale aspetto, ricordare i numerosi individui attestati nella medesima fonte e aventi Corsu “Còrso” per cognome.
In conclusione, la risoluzione palatale dei nessi costituiti da consonante occlusiva + l fece la sua comparsa in Sardegna forse nella seconda metà del Duecento, cominciando a interferire nelle fonti del secolo successivo. Dopo un periodo di latente vigenza, è nel primo Quattrocento che la documentazione si fa più copiosa, testimoniando una lotta che già nella seconda metà dello stesso secolo può dirsi conclusa a favore dell’innovazione arrivata dalla Toscana e dalla Liguria attraverso i numerosi immigrati còrsi. Come già osservato da Bottiglioni e Wagner, l’innovazione si propagò verso il centro dell’isola con una dinamica che in alcuni villaggi della Planargia e del Montiferru non sembra essersi arrestata del tutto. Ma la norma impostasi nelle restanti aree centromeridionali, la quale vuole che nei nessi in questione l passi ad r, riguadagnò le aree perdute, compreso il principale punto d’irradiazione dell’innovazione che è da riconoscere in Sassari. Si spiega così il fatto che, accanto alle risoluzioni palatali che conservano la propria vigenza, oggi i prestiti recanti questi nessi vengano adattati con kr, gr, pr, br, fr (es.: ekrissáre “eclissare”, bicikrètta “bicicletta”, brekkáu “black-out”, franèlla “flanella”, ecc.).
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Note:
144 G. SPANO, Notizie storico-critiche intorno all’antico Episcopato di Sorres, ricavate da un autografo manoscritto del secolo XV, Cagliari, 1858.
145 Wagner invece, nel lemmatizzare la voce miskiare, in DES I 119 non raccoglieva le due attestazioni trecentesche
146 L. D’ARIENZO, Documenti sui Visconti di Narbona e la Sardegna, II, Padova, doc. 102, p. 7. .
147 M. MAXIA, Origine e significato della denominazione ‘Anglona’, “La Grottadella Vipera”, n. 72-73, autunno-inverno 1995-96
STUDIUM ADF
Sassari – 1999
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© Mauro Maxia
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