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Quaderno 3 dei villaggi abbandonati della Sardegna a cura di Marco Milanese – Presentazione in sala consiliare a Chiaramonti

Scritto da ztaramonte

È documentato che dall’alto al tardo medioevo l’isola era popolata da numerosissime ville (chi sostiene 745 e chi oltre mille) che tra il secolo XIII e XIV furono abbandonate o quantomeno persero le caratteristiche abitative precedenti per diventare veri e propri villaggi di epoca moderna con un maggior numero di abitanti, ma assai ridotte rispetto alle ville medievali (circa 290/300).

Le ville in genere potevano avere da dieci a cento fuochi fiscali  e da 40   a 400 abitanti  che pagavano le tasse.

La nostra Orria Pithinna era una di queste ville identificata dall’équipe di Marco Milanese nelle tanche che guardano il fianco ovest di Santa Maria Maddalena e che degradano da Monte Columba. Presso la villa scorreva il rio Iscanneddu secondo gli storici, probabilmente dotato di un mulino ad acqua.

Il villaggio era situato in un crocevia di strade che conducevano a Tatari e a Piaghe a Oesteana de monte (Osilo) a Nugulbi e poi verso Ampurias e Coghinas. Diciamo pure che la villa aveva buone a proficue localizzazioni stradali agricole, aziendali, con abbondanza di terreni seminativi, pascolativi e animali e boschi.

A questo si aggiungano uomini e donne liberi e servi di nobili imparentati, con i giudici di Torres.

La villa di Orria Pithinna

Nell’anno del Signore 1135 quasi sicuramente la nostra villa esisteva come ricordava il toponimo, i documenti storici, e confermano oggi le ricerche archeologiche. All’epoca, dall’altra parte della strada, vale a dire sullo spiazzo che contiguo a sos Renalzos, sito della chiesa e non solo, esistevano fattorie, terreni, boschi, animali e uomini liberi e servi della famiglia dei giudici di Torres. Non sappiamo in che rapporti fossero gli abitanti della villa con la famiglia De Thori, ma di certo nel villaggio abitavano servi legati ad essa da vincoli di servitù e quindi di lavoro e uomini liberi capeggiati dal majore de villa e da altri pochi notabili che la governavano. Esisteva anche la chiesetta parrocchiale del villaggio, intestata a san Nicola, in linea con l’area di sedime dove 70 anni più sarà edificato il monastero.

La chiesa era  retta dal parroco che di certo non aveva da compilare l’anagrafe parrocchiale non ancora istituita. I servi e liberi nascevano e morivano senza lasciar traccia di sé, a meno che non finissero per svariati motivi negli atti notarili dei condaghi o fossero componenti della famiglia giudicale di Torres.

L’abbondanza di seminativi e pascoli che la valle ampia offriva comprendendo in essa la più ricca e abitata di Orria Manna; la presenza forse di un altro mulino ad acqua più a monte, non molto lontano dall’esistente chiesa di Santa Giusta da cui scaturiva un’abbondante sorgente di acqua, inoltre la collina di sos Renalzos forse piantata a vigna,  i boschi più in alto nei pressi de sa Serra e sicuramente nella zona di Nicu, davano agli uomini e alle donne della villa l’opportunità di vivere con una certa agiatezza a patto che si rispettassero le consuetudini.

Una delle tante donne che si recava solitamente a lavare i panni presso il rio, una mattina d’inverno, raccontò alle altre d’aver sentito proprio dalla sorella della protagonista questo fatto

La nascita alla Storia di Orria Pithinna

L’anno del Signore millecentrotrantacinque, forse in una notte di gennaio, a cavallo, percorrendo i tratturi che dall’abbazia di Salvennor, portavano verso Osteana de Montes e Nugulbi, e poi deviavano verso la chiesa di Santa Giusta, Petru de Flumen bussò alla porta della sorella di Maria Pira che abitava  nel primo rione della villa di Orria Pithinna.

La donna, sui 50 anni, aprì, riconobbe al lume di stearica il volto stanco e la pancia tondeggiante della sorella. La fece entrare insieme all’accompagnatore, la invitò a sdraiarsi sul letto di legno con materasso di paglia ed esclamò:

- Che ti è successo Maria?

La donna non rispose, ma Petru de Flumen, uomo libero, originario di Villa Alba, anche lui residente a Salvennor, disse:

-  Sta per sbocciare il fiore che abbiamo seminato a primavera inoltrata, ma tu sai io sono un uomo libero e la consuetudine impedisce che io la sposi. Credo che fermandoci da te fino al parto potremo poi, in barba al priore di Salvennor, sposarci e vivere serenamente.-

- Incosciente, rispose Giusta, sai bene che i monaci di Savennor non accetteranno di buon grado questo matrimonio, essendo lei di pertinenza del monastero. Potevate evitare queste cose e tu già sei uomo di mondo. Maria è serva della chiesa e i suoi frutti appartengono alla stessa chiesa. Di certo il parroco di Santu Nicolau non benedirà le vostre nozze.

 I procuratori di Salvennor in men che non si dica, sapendo che io abito in questa villa, non si faranno attendere anche perché qui è un crocevia di passaggio e dai quattro punti cardinali arriva gente che riferirà dove vi siete rifugiati!-

 Una settimana dopo, nacque un maschietto e anche di fronte all’evidenza il parroco di Santu Nicolau non volle sposare i due fuggiaschi.

Nel frattempo Maria allattava il bambino e la sorella la nutriva come la loro condizione permetteva, pentolame molto grezzo, brocche mal rifinite, mestoli di sughero e legna, non mancava una cassapanca per il pane e nicchie scavate nel muro rustico per sistemare la provvista del lardo. Solo la biancheria di lino locale sembrava dare splendore a quella casa.

La stessa casa piccola e bassa con tegole grezze, porta di legna e spioncino scorrrevole, per vedere i passanti e i  visitatori rivelavano la povertà della proprietaria, da tempo resa libera da ogni servitù.

Il tracciato del piccolo villaggio di circa 40 famiglie e 120 abitanti aveva conservato il disegno dell’antica villa romana, di tempo in tempo abbandonata e poi ripopolata. Nelle campagne circostanti non mancava la legna, l’acqua del rio Badu Olta e i campi di grano sia pure di proprietà di vari liberi che offriva ai servi a giornata l’opportunità del pane per tutto l’anno. Nel bosco gli arbusti nutrivano le capre.

Il maiale dava il lardo e il pollaio era abbondante. La caccia e la pesca dalle piscine dava il resto. Il commrtcio in forma di scambio merce per merce non mancava dato che la piccola villa era il crocevia di passaggio per Thatarie-Piaghe, Osteana de Monte e Nugulbi, Castelgenovese e Coghinas.

Non passò un mese che il procuratore della chiesa di Salvennor, Costantino De Tori, arrivato anche lui a cavallo con due servi, bussò alla porta dei fuggiaschi, incontrò gli occhi di Maria che allattava il bambino e poi scovò anche Petru de Flumen.

-   Vi dichiaro in arresto. Tu Petru sei libero e rimarrai libero,ma tu Maria e tuo figlio sei serva  del monastero di Salvennor e dovrai ritornare lì con tuo figlio, appartenente anche lui al monastero. A te Petru se rispetterai le consuetudini ti darò in moglie una delle mie figlie della tua stessa condizione. Quando mai ti è venuto in testa di rubare Maria alla chiesa di Salvennor.

-   Sellate i cavalli e alla spiccia  si parte per Salvennor!-

Le lacrime rigarono il volto di Maria e scesero sul viso del figlio che allattava, Petru la guardò con uno sguardo di rassegnazione. Montarono lesti tutti a cavallo e ripresero la via del ritorno lungo la sterrata che conduceva a Montes e poi a Salvennor.

I peccati di primavara si piangono in inverno, quelli di gioventù in vecchiaia diceva il proverbio.

Maria si avviò rassegnata al suo destino e Petru al suo. Lei serva al monastero. Petru. dopo l’alzata di testa, doveva restare nel suo rango e già sognava di impalmare la  figlia migliore del procuratore Costantino De Tori. .

Il tempo vola anche nelle ville dell’Anglona, pesti e carestie non sono calamità rare, perché in questi tempi la morte era sempre in agguato e non sempre le erbe medicamentose risanavano tutti i mali.  D’altra parte non dimentichiamo che  sorella Morte, come a quei tempi la chiamava san Francesco (1182-1226), con i cicli  di peste imperversava di tempo in tempo da oriente a occidente, per cui le ville in cui il passaggio dei pellegrini era più frequente, spesso venivano decimate.

Dal 1135, però, ad Orria Pithinna non si stava male e la situazione dovette migliorare quando la nobildonna Maria De Thori, zia del giudice di Torres, Comita II, nel 1205 donò all’Eremo e al Monastero toscano (zona di Arezzo) di Camaldoli le due chiese di Santa Maria di Orria Pithinna e di Santa Giusta più uomini liberi, servi, terreni, boschi e animali in gran numero.

I monaci non ci pensarono due volte e arrivarono sul posto per prendere possesso dei beni donati. In primo luogo edificarono il monastero almeno per ospitare una decina di monaci più il priore e, rimisero  a nuovo o restaurano o riedificarono, secondo lo stile dei confratelli di Salvenor e di Saccargia, la loro chiesa utilizzando la vicina Rocca Ruja che incombe sul rio Iscaneddu e ricavando i blocchetti calcarei presumibilmente da su Crastu Biancu non molto lontano nei pressi di Santa Giusta.

 I nuovi arrivati sono laboriosi e del resto hanno servi e serve, animali di ogni genere e qualche novità tecnica per cui gli abitanti della villa instaurano buoni rapporti come si usa fare con i nuovi arrivati, sebbene nel tempo non manchino degli screzi come avviene tra confinanti.

 La storia della villa e del monastero procedette indipendentemente l’una dall’altro dal punto di vista fiscale, in quanto è documentato che tanto  la villa quanto il monastero pagavano le decime per proprio conto.

 Diamo ora uno sguardo alla chiesetta che essi costruirono, si tratta di una chiesa ad una sola navata, la volta che incombe nell’aula è a botte, l’abside è semicircolare, la facciata è a capanna e la porta è archiacuta. Il pavimento  costruito probabilmente in blocchi di trachite grigia che nei dintorni non mancava e dello stesso materiale risultano i gradoni su cui potevano sedersi i monaci per recitare l’ufficio del Signore. Con lo stesso materiale edificarono sicuramente il monastero al cui centro era posizionata la chiesa.

Non sempre nel monastero ci fu la serenità come si rileva dal frequente cambio del priore. La chiesa nel 1335 fu ampliata con le due cappelle laterali che non appaiono architettonicamente in armonia col resto della costruzione.

Bisogna dire che in riferimento a questo ampliamento si hanno notizie epigrafiche e possiamo dire che i muri parlino con uno straordinario numero di epigrafi e simboli nonostante l’imperfetta abilità del lapicida. Tra l’altro si legge che l’opera fu ultimata nel 1323; del 1335 è la scritta sul maestro Petrus Cothu e sul priore committente frater Cenus. Altra epigrafe accenna ad un probabile sepolcro di san Eutedio, un santo misterioso che non si riscontra in nessun elenco ufficiale dei santi e che potrebbe essere stato un santo monaco venerato localmente. Non essendo stata sottoposta a scavi stratigrafici né l’aula della chiesa né tantomeno la zona perimetrale non si è trovato il sepolcro di questo santo.

Tanto il villaggio quanto il monastero assistettero nel tempo al passaggio di numerosi pellegrini diretti alla venerazione dei sepolcri della cattedrale di Torres: San Gavino, San Proto e San Gianuario. Maestranze, fedeli e pellegrini hanno lasciato impronte di calzari e di simboli di vario genere che l’epigrafista ha inserito in una ricca tabella.

A proposito si visiti la grotta chiesa di san Michele di Monte Sant’Angelo in Puglia, un epigrafista ci potrebbe stare una vita a decifrare i tanti segni, simboli e impronte che i pellegrini e i crociati diretti verso la Terrasanta hanno lasciato.

Anche i pellegrini anglonesi e galluresi non scherzavano.

Prima di concludere questa breve relazione di un lavoro ampio e complesso un breve cenno vorrei fare al contributo di Alma Casula sulla storia dei restauri promossi dalla soprintendenza e un cenno all’esame storico stilistico di Aldo Sari. Nel primo contributo è presente una ricca documentazione fotografica e la storia di quanto si è progettato e fatto per il recupero della chiesa e per salvarne i pregi. Nel secondo oltre alla descrizione storico-artistica nel contesto dello sviluppo delle costruzioni romaniche pisane presenti in Sardegna vengono individuate le peculiarità di questa chiesa.

La vitalità della società post giudicale dei Doria emerge dai cartulari o atti notarili del notaio Francesco da Silva, esaminati da Alessandro Soddu, dove traffica un mondo di artigiani, commercianti, imprenditori, proprietari terrieri di varie origini: bonifacini, genovesi e sardi. Emergono matrimoni a sa sardisca e a sa pisanisca, intendendo con ciò alla sarda e all’italiana. Servi, liberi e membri dell’ambiente dei Doria che decisamente dominano non soltanto nella loro capitale sarda, Castel Genovese ma in tutto il territorio di loro pertinenza fino all’arrivo del Catalano-Aragonesi che metteranno in crisi la loro egemonia. Tanto la villa quanto il monastero entrarono in crisi sicuramente per i vari cicli di peste che si verificarono tra il XIII e il XIV secolo, come avvenne del resto in tutta la Sardegna, in particolare per quanto riguarda gli abitanti di Orria Pithinna, si presume che si spostarono in un primo tempo a Bidda Noa e con l’incastellamento diedero vita man mano al borgo di Chiaramonti. Gli stessi monaci, essi stessi decimati, abbandonarono il monastero e i loro possedimenti.

L’equipe di Marco Milanese oggi meritatamente con un monte ore di scavi quasi incalcolabile, con un altrettanto numero di pubblicazioni e con una ben meritata fama in Italia e all’estero, sul nostro territorio ha dato inizio a un lavoro il cui valore è incommensurabile se i chiaramontesi sapranno trarne profitto e se gli amministratori comunali sapranno recuperare con sagacia i fondi sia per gli scavi stratigrafici della villa sia per gli scavi più avanzati sul monastero e sulle chiese che vanno eseguiti.

Gianluigi Marras, Maria Cherchi e Giuseppe Padua allievi del professore e giovani promesse sul campo dell’archeologia, in questo loro contributo offrono una magistrale dimostrazione della loro abilità e dell’autenticità della scuola del grande maestro descrivendo i confini della villa e i materiali reperiti. Che posso dire poi del bravissimo Giuseppe Piras epigrafista.

Alessandro Soddu già attivissimo in un settore fecondo qual è quello della società ed economia medievale ci presenta un affresco dai colori vivaci sugli operatori economici che pullulano a Castelgenovese..

Dulcis in fundo arriviamo al nostro grande amico, noto e quasi di famiglia Mauro Maxia, che per oltre trent’anni ha solcato l’Anglona e la Gallura, spingendosi anche in Corsica e che ha prodotto lavori fondamentali e di alto livello senza i quali l’èquipe avrebbe trovato grandi difficoltà a mandare avanti i lavori archeologici. Vada a Mauro il nostro plauso per il suo contributo su Orria Pithinna, per ogni toponimo e nome che abbellisce la nostra terra e la nostra storia. Infine è giusto riconoscere che egli è stato l’anticipatore di quegli studi e scavi che continueranno, che verranno portati avanti dagli storici e dagli archeologi nel nostro territorio per far più chiara luce di quegli abitanti che possimo considerare i nostri antenati di quasi mille anni fa.

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