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Gesù risorge trionfante e bello.
Pieno di splendore.
Si commuove il mio cuore.
Del male che ho fatto
Egli mi perdonò…
Così iniziava la prima poesia che la mia splendida maestra, dagli occhi grandi e azzurri, Maria Athene, apprezzò talmente da pubblicarmela su un giornalino scolastico a stampa, nel ’49. Quanto c’era però, in quei versi di tardo-scolaro di scuola elementare, dei ricordi della Pasqua, delle visioni liete della mia infanzia dolce di ragazzo di strada, a Sa Niera, in Chiaramonti, il mio dolce paese di collina che mi faceva e tuttora mi fa vibrare il cuore?
Dopo i tre giorni di lutto generale, per la morte di Cristo, il legamento delle campane, la processione de “S’Incontru” al mormorio delle invocazioni, subissate dal gran fracasso de “sas matraccas”, si diffondeva nelle vie del paese, confondendosi con l’aria frizzante che si respirava, il profumo de sos pabassinos, de sas cadajinas, de sas cotzulas de pistiddu, de sas copullettas. Dai fumaioli delle case usciva il profumo di mandorle dolci e amare. C’era nel borgo un sommesso chiacchiericcio, uno scambio di aiuto tra le famiglie di contadini e pastori, una profusione di bravura dolciaria tradizionale incontenibile e una generosità del donare e del ricevere.
Molte porte si aprivano per ricevere un dono, altrettante si aprivano per portare un dono. Messaggere silenziose e garbate, le preadolescenti, il cui sguardo sapeva ancora di fanciullezza.
In quest’atmosfera da fiaba, mentre il Cristo scendeva agl’Inferi, per riportare in Cielo gl’immalinconiti Patriarchi, il borgo viveva l’attesa di Pasqua.
La mattina del giorno tanto atteso, nella chiesa di San Matteo, dopo la proclamazione del Gloria, le campane si scioglievano suonando a distesa, con tintinnii e toni diversi, mentre le rondini svolazzavano fra i tetti e dai prati e dalle colline in fiore, spiravano brezze e colori.
E noi bambini di strada, non rivestiti come i chierichetti, pavoneggiatesi in tonachine rosse e cotte bianche, accanto al Vicario nel massimo splendore liturgico, avevamo un bel da fare nelle case con adeguati bastoni a picchiar sulle cassapanche, forse a cacciare i diavoli che avevano occupato spazi impraticabili con il Cristo Risorto.
Al termine della Messa di Pasqua le campane riprendevano a suonare a distesa e un’imponente processione attraversava le vie principali del paese. Eccolo allora il Cristo Risorto avanzare nel trionfo della sua vittoria sulla morte, seguito dalla Vergine rivestita da una tunica bianca e ricoperta da un manto azzurro. Tutto il paese si poneva alla sequela delle due statue in processione, anche quegli uomini duri e impacciati che per dodici mesi l’anno se l’erano spassata con i peggiori diavoli del borgo.
Noi bambini di strada, da punti strategici, nel caso mio e dei miei amici, dal muro di sostegno della casa Grixoni, sbarrando gli occhi, guardavamo finalmente Gesù Risorto e sua Madre tutta felice. Non mormoravamo preghiere, ma guardavamo la folla che ondeggiava, mentre le campane continuavano a risuonare a festa.
Un segno di croce, fatto alla buona, quando passavano Gesù e Maria e poi richiamati, dalle mamme, ci si apprestava a gustare l’agnello, appena tolto dal forno. Le campane però continuavano a squillare come una benedizione sulle piccole case di piccola e povera gente, felice di respirare l’aria profumata di Pasqua.