22
ott
2008
Contos de foghile – Prologo, I tre fratelli e Monte Bardia.
“Leggende sarde” di Grazia Deledda, a cura di Dolores Turchi, Roma, Newton Compton Editori, 1999, collana Italia Tascabile, 8
Prologo [6]
Oggi io voglio narrare due graziosissime leggende nostrane alle spirituali lettrici di Vita Sarda. Ora le leggende sono di moda, e nella rinascente fioritura degli studi popolari, verso cui tutti, pensatori, scrittori, poeti, volgono lo sguardo, quasi ad un fresco lido ove approdare, dopo tante oscure tempeste letterarie, la leggenda ha il primo posto, senza parerlo. La leggenda è aristocratica, è artistica, è volgare e popolare nello stesso tempo; desta lo stesso interessamento nello spirito fine della signora colta e nella fantasia rozzamente poetica della popolana; nell’animo sognatore dell’artista e nella percezione spregiudicata e indagatrice dello scienziato. La leggenda richiama l’attenzione del poeta e dello storico, che la sfronda per trovare nel suo fusto le tracce delle generazioni sepolte, l’indole delle generazioni viventi e il germe di quella delle generazioni future.
Può destare lo stesso fremito nei circoli gai dei salotti eleganti, e negli intenti animi dei pastori riuniti intorno al triste focolare – nei fanciulli e nei grandi -, e può, infine, fornire i materiali per un volume serio, dotto, scientifico, e per un volume di amena lettura, spumoso, elegantemente inutile.
Ho studiato altrove, benché rapidamente, il carattere della leggenda sarda, che, all’infuori dei cicli di leggende sarcastiche, vòlte a porre in satira un dato personaggio o un dato villaggio, ha il profilo serio e melanconico delle tradizioni meridionali.
Dirò qui alla sfuggita che la Sardegna, terra per sé stessa leggendaria e misteriosa, è piena di leggende. Ogni chiesa campestre, ogni rovina di castello o di chiostro, ogni villaggio, ogni cussorgia (tratto di regione che ha un dato nome), ogni grotta, ogni dirupo, ogni montagna, ogni landa ha la sua leggenda.
Talune leggende si incrociano e si confondono con le fiabe, – ed una di queste è la prima delle due che oggi ho il piacere di narrarvi, – al verosimile mescolando il fantastico, con lontane reminiscenze delle leggende nordiche, delle saghe, delle fiabe fiamminghe o alemanne, – ma la miglior parte ha una esplicazione tutta locale, che ne delinea nitidamente il carattere.
Sono personaggi storici che si mescolano coi diavoli, con le fate, con le streghe e le janas; sono i giganti, da cui il popolo sardo crede fossero abitati i nuraghes, sono i Saraceni, i Pisani, i Genovesi, gli Spagnoli, i Giudici, i Vescovi che in ogni tempo, – dopo la dominazione romana, di cui soltanto i Sardi, pur restando tanto profondamente latini, negli usi e nella favella, non si ricordano quasi, – fecero del bene e del male all’isola. Sono i Doria e i Malaspina, sono i giudici di Torres, i viceré aragonesi, i frati, le maliarde fiorite nel medio-evo, sono le scorrerie e le avventure dei pirati saraceni, negli ultimi secoli prima del mille, sono artisti ignoti, forse del trecento e del quattrocento, non ricordati neppure dalle scarse cronache sarde, e dame misteriose e santi e guerrieri, e talvolta lo stesso Gesù o la stessa Maria.
Molte poi delle leggende sarde hanno un vero valore storico, specialmente quelle di talune chiese e di qualche montagna. Senza ombra di fantasticheria, senza fronde, senza personaggi sovrannaturali, formerebbero, se ben raccolte e ben studiate, degli elementi, dirò anzi dei documenti vivi, utili per la storia sarda.
I tre fratelli [7]
Nella catena di monti che circondano Nurri, e precisamente nel monte chiamato Pala Perdixi o Corongius, c’è una grotta naturale, assai ampia e interessante, dove i contadini e i pastori si rifugiano per riposarsi, e talvolta per passarvi la notte. Una volta tre fratelli, tre buoni abitanti del villaggio, stanchi di aver raccolto olive tutta la giornata entrarono, verso sera, per riposarsi in questa grotta.
Mentre stavano ragionando tranquillamente fra loro di cose di campagna, e cenando con del pane e del magro companatico, videro entrare tre donne, che si fermarono dubbiose sull’ingresso, guardandoli con diffidenza. Ma subito essi, da buoni giovani che erano, le invitarono gentilmente ad avanzarsi ed a prender parte alla loro cena. Le donne accettarono. Finito il pasto, dopo molti inutili ragionamenti, esse chiesero ai tre lavoratori chi fossero e come si chiamavano.
«Siamo tre fratelli orfani», risposero essi con buona grazia, «e lavoriamo per vivere. Siamo tanto poveri che se sapessimo come migliorare la nostra condizione davvero che lo faremmo volentieri.»
Le tre donne che erano tre streghe (orgianas) o meglio tre fate, si consultarono con lo sguardo, prima; poi parvero combinare qualcosa fra loro, con uno strano linguaggio che sembrava piuttosto un miagolio.
Quindi la più vecchia si levò di tasca una tovaglia e la diede al maggiore dei fratelli dicendogli: «Buon giovine, prendi questo dono che ti faccio da vera amica. Tutte le volte che vorrai mangiare, tu, i tuoi fratelli e tutta la compagnia, non avrai che da sbattere tre volte questa tovaglia, stendendola poscia dove tu vorrai. E sopra di essa ti comparirà ogni ben di Dio».
La seconda delle fate si rivolse al secondo fratello e gli offrì un portafogli dicendogli: «E tu prendi questo. Tutte le volte che lo aprirai ci troverai denaro a tua volontà». La più giovine intanto porgeva un piffero (sas leoneddas) al terzo, con queste parole: «Questo strumento da fiato che io ti do servirà non solo per te, ma per tutti coloro che lo suoneranno e lo udranno. Va’, caro fanciullo, io non ho altro di meglio, ma vedrai che questo umile dono ti renderà un servigio maggiore di quello che renderanno ai tuoi fratelli la tovaglia e il portafogli».
Dopo tutto questo i giovani e le tre fate si congedarono amabilmente, ringraziandosi scambievolmente e dicendosi il rituale teneis’accontu (tenetevi bene) dei sardi meridionali.
I tre giovani, possessori di quei talismani meravigliosi, non avendo più bisogno di lavorare, presero a viaggiare per le città dell’isola in cerca di avventure e di piaceri. Da per tutto lasciavano tracce di beneficenza e di generosità – giovani di buon cuore come erano -, ma un giorno un prete potente e strapotente intimò loro di lasciar l’uso dei loro talismani, pena la scomunica e il carcere.
Qui (apro una parentesi) la leggenda non parla chiaro, ma probabilmente questo brano è un vago ricordo dell’Inquisizione impiantata in Sardegna verso la metà del secolo XV, ma esercitata anche prima d’allora da alcuni frati minoriti, e importata naturalmente dalla Spagna.
I tre fratelli risero per l’intimazione del prete. I talismani erano invisibili a tutti, tranne che ai loro possessori; quindi essi non avevano di che temere. Alle replicate minacce del prete il più giovane dei fratelli si pose a suonare il piffero, che aveva l’incanto di far ballare con la sua musica tutti coloro che la sentivano, tranne i tre fratelli. Ed ecco il prete che, contro volontà, si diede a ballare con uno slancio proprio ridicolo e irrefrenabile.
Accorse molta gente; ma a misura che si accostavano e che sentivano distintamente il magico suono, tutti ballavano senza potersi mai fermare. In breve la strada fu piena zeppa di gente che pareva impazzita, che saltava smaniando, contorcendosi, chiedendo grazia al misterioso suonatore. Costui però si divertiva molto nel veder ballare il prete, che grasso e tondo soffriva più degli altri in quella danza infernale, e non smise finché non lo vide cadere a terra sfinito e svenuto.
I tre fratelli, dopo tutto ciò, si diedero alla fuga, ma ben presto furono raggiunti, legati e gettati in fondo ad una torre.
Ma anche laggiù essi si divertivano suonando, ballando e mangiando insieme con gli altri prigionieri ed ai custodi della torre.
Perciò il loro processo fu presto sbrigato, e, condannati a morte, furono dopo pochi giorni condotti alla forca. Una fiumana immensa di gente, anche dei paesi lontani, si accalcava intorno intorno per godersi lo spettacolo dell’impiccagione dei tre fattucchieri.
Sul punto di morire i tre condannati chiesero ai magistrati presenti di accordar loro una grazia per uno. E siccome ai condannati non viene negata un’ultima grazia, tranne quella della vita, i tre fratelli ebbero ciò che chiedevano.
Il primo chiese di offrire un pranzo a tutta la moltitudine, compresi i giudici.
La proposta fu accolta con entusiasmo dalla folla, e subito il giovine stese la sua tovaglia sul palco. Ogni sorta di pietanze, di frutta, di dolci e di vini squisiti compariva sulla strana mensa. La gente mangiava e beveva a crepapelle, ma più se ne consumava più grazia di Dio abbondava sulla tavola.
In breve tutti, sgherri, carnefici, popolo e magistrati furono ebbri e sazi a più non posso. Allora il secondo fratello chiese la grazia di distribuire del denaro. Figuriamoci se fu concessa! Aperto il portafogli incantato, il condannato distribuì enormi somme, in monete e lettere di cambio (i biglietti di banca non esistevano ancora) a quei poveri diavoli di soldati, di contadini e di pastori che mai avevano veduto una simile meraviglia.
Mentre tutti si abbandonavano ad una pazza allegria – come avremmo fatto anche noi, scrivente, lettrici e lettori, non ostante la nostra serietà e il nostro nobile disprezzo per il denaro -, il terzo fratello chiese, così tanto per formalità, la grazia di suonare. Sperando un altro benefizio, i giudici e la folla accordarono a grandi voci quest’ultima grazia. Il giovine ritto sul palco fatale, si mise a suonare e immantinente tutta la folla briaca, i giudici, le soldataglie e i carnefici si diedero ad eseguire una danza furiosa, macabra, spingendosi gli uni sugli altri, pestandosi, urtandosi, cadendo a terra chi svenuto, chi ferito e chi persino morto. E nella terribile confusione i tre condannati poterono svignarsela e porsi in salvo coi loro talismani.
Monte Bardia
Questa leggenda risale all’ottavo o nono secolo. Dopo l’insurrezione dei sardi contro la dominazione bizantina, fuggiti i fiacchi Greci da Cagliari, l’isola si resse da sé per qualche tempo, governata dal famoso re Gialeto, ch’era già stato capo dei rivoluzionari. Ma venne tosto infestata dai Saraceni, che la sbranarono con ogni sorta di scorrerie, di espilazioni, di saccheggi e di rovine. Le coste dell’isola erano costantemente piene di pirati e di guerrieri saraceni, e i villaggi marittimi erano quelli che più certamente ne soffrivano. Gli abitanti di Dorgali, grosso villaggio nel circondario di Nuoro, vicino alla costa orientale, ma difeso da un’alta montagna calcarea, tenevano sempre un gruppo di uomini forti e valorosi sulla cresta del monte, in guardia contro tutti i movimenti dei saraceni accampati sulla sottostante costa. Era una specie di assedio.
I saraceni spiavano il momento di poter passare sui monti senza pericolo, ma i Dorgalesi stavano fermi alla guardia. Così scorreva il tempo inutilmente, allorché i saraceni fecero una falsa ritirata.
Ingannati da ciò e spinti dalla loro profonda fede religiosa, un giorno di festa solennissima i Dorgalesi della guardia abbandonarono i loro spalti naturali e scesero al villaggio per assistere alle sacre funzioni. Tosto i saraceni sbarcarono e salirono sul monte, ma mentre stavano per piombare sul villaggio si fermarono paurosi a guardare. Vedevano una immensa fila di persone vestite a vivaci colori, con in mano strani bastoncini bianchi e croci e randelli e bandiere, sfilare per le vie di Dorgali, incamminandosi come alla montagna. Era una processione. Ma ai saraceni, per volere della Madonna, la processione, così veduta dall’alto e da lontano, parve un esercito di soldati armati che si preparasse ad inseguirli e disperderli. Perciò si diedero a precipitosa fuga e qualcuno restò appiccato per i capelli agli alberi della montagna. Uno di questi alberi mi pare anzi che si chiami ancora ed appunto del saraceno.
Questa è la leggenda gentile dei monti di Dorgali, immortalata da una delle punte principali, che in memoria di tal fatto si chiama della guardia (de sa Bardia).
Note:
[6] Questo prologo e le leggende “I tre fratelli” e “Monte Bardia” sono state pubblicate in Vita Sarda, III, 10 dicembre 1893.
[7] Questa leggenda è stata raccolta a Nurri, grosso villaggio del circondario di Lanusei, dalla gentile signora Maria Manca, studiosa dei costumi e delle tradizioni sarde.
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Più coinvolgente la prima (quella dei tre fratelli), tra realtà e mistero, tra aspirazioni e aspettative, meno avvincente la seconda (Monte Bardia). Con una bacchetta magica si possono risolvere meglio i problemi, immaginiamoci poi se intervengono le fate. Più oleografica la seconda: i colori sgargianti delle donne in costume possono colpire popolazioni senza colori anche se i nordafricani, sempre molto vicini a noi (l’Africa dista da Cagliari 150 chilometri) in realtà amano i colori come noi e possono anche dirsi nostri cugini: dall’africa punica vennero i moduli delle nostre prime città, con i punici si costituì la società sardo-punica che combatté rabbiosamente l’invasione dei romani, molti sardi non differiscono dai nordafricani per i tratti del corpo ed il colore della pelle e per altri caratteri genetici ( a quando gli studi sull’ archeologia del sangue di cui tanto si parla).
Sul piano del genere la Deledda pare avvicinarsi al realismo magico che sarà una precipua caratteristica delle opere del Bontempelli.
Artificioso il riferimento all’Inquisizione e un tantino popolaresco sprezzante l’immagine del prete basso e grasso e quasi repellente.
L’immagine che ho colto anch’io trafficando la Sassari di via Frigaglia, al centro storico: sicuri sostrati dell’dio feroce contro il clero suscitato sia dagli anarchici e socialisti del primo Novecento sia dalla rivoluzione del 1848 a conclusione della quale si ottenne lo Statuto Albertino, si aggiunga l’opera dei massoni e da ultimo il lavoro a fondo di scristianizzazione delle masse da parte del marxismo-leninismo.
Grazie Deledda cade anche lei nel trabocchetto. Io penso che la letteratura, per quanto è possibile, debba liberarsi delle scorie di sotterranee polemiche politiche, se vuol essere cristallina nella forma e nei contenuti. Le poesie del Leopardi ne sono un esempio preclaro, così l’opera del Manzoni. Spesso non riusciamo davvero a liberarci di quella tossicità faziosa che si annida nei nostri animi impuri.
Angelino Tedde
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