Archivio della categoria ‘Contados’
Scritto da carlo moretti
Tratto dal libro: “Contos chena tempus” di Pinuccio Canu.
Sos corros de su chervu
Tucheit unu chervu a s’abbadorzu
e in cuss’abba totu s’ispijeit:
banteit sa carena cun su corzu,
sos pes romasos pagu pertzieit.
“Sos corros apo a bantu e meraviza,
pomposos, bellos longos che moniles.
Mi mudant e mi deghent a sa chiza
ma tropu lanzos tenzo sos archiles”.
Ma, tot’in unu, intendet sos apeddos
de cos”e canes meda arrajulidos:
fiagant suta ‘e tupas e rueddos
ca sunt a mata bòida inganidos.
Su chervu si che fuit cun profetu
cun cuddos pes lizeris murrunzados
ma non che faghet mancu meda tretu
ca restat cun sos corros trobojados.
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Scritto da carlo moretti
Vicino ad uno dei più pittoreschi villaggi del Nuorese, noi abbiamo un podere coltivato da una famiglia dello stesso villaggio.
Il capo di questa famiglia, già vecchio, ma ancora forte e vigoroso, – strano tipo di sardo con una soave e bianca testa di santo, degna del Perugino, – viene ogni tanto a Nuoro per recarci i fitti ed i prodotti del podere, e ogni volta ci racconta bizzarre storie che sembrano leggende, invece accadute in realtà tra i monti, i greppi, e le pianure misteriose ove egli ha trascorso la sua vita errabonda, e a molte delle quali egli ha preso parte… Egli si chiama zio Salvatore.
Ecco dunque l’ultima storia che egli ci ha raccontato, che molti non crederanno, e che pure è realmente avvenuta in questa terra delle leggende, delle storie cruente e sovrannaturali, delle avventure inverosimili.
Era una notte di maggio del 1873. In una capanna perduta nelle cussorgias solitarie del villaggio di zio Salvatore, due giovani pastori dormivano accanto al fuoco semi-spento. Fuori, vicino alla capanna, le vacche dormivano nell’ovile di pietre e di siepe, e la luna d’aprile, tramontando sull’occidente di un bel roseo flavo, illuminava la campagna sterminata, nera, chiusa da montagne nude, a picco. A un certo punto uno dei pastori si svegliò, e rizzandosi a sedere guardò se albeggiava. Visto che la notte era ancora alta ravvivò il fuoco, e, a gambe in croce restò un momento muto, immobile, tormentato da un pensiero; poi svegliò il compagno.
Erano entrambi bruni, simpatici e forti, ma il primo svegliato, che si chiamava Bellia, cioè Giommaria, era più alto e ben fatto, con una testa signorile che colpiva, e faceva chiedere se a chi apparteneva non era figlio di qualche ricco Don.
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Scritto da carlo moretti
La figlia piccola di un pastore era intenta ad accudire il gregge del padre in un pascolo vicino Betlemme, quando vide degli altri pastori che camminavano speditamente verso la città. Si avvicinò e chiese loro dove andavano.
I pastori risposero che quella notte era nato il bambino Gesù e che stavano andando a rendergli omaggio portandogli dei doni.
La bambina avrebbe tanto voluto andare con i pastori per vedere il Bambino Gesù, ma non aveva niente da portare come regalo. I pastori andarono via e lei rimase da sola e triste, così triste che cadde in ginocchio piangendo.
Le sue lacrime cadevano nella neve e la bimba non sapeva che un angelo aveva assistito alla sua disperazione. Quando abbassò gli occhi si accorse che le sue lacrime erano diventate delle bellissime rose di un colore rosa pallido. Felice, si alzò, le raccolse e partì subito verso la città.
Regalò il mazzo di rose a Maria come dono per il figlio appena nato.
Da allora, ogni anno nel mese di dicembre fiorisce questo tipo di rosa per ricordare al mondo intero del semplice regalo fatto con amore dalla giovane figlia del pastore.
Scritto da carlo moretti
Il vischio come simbologia del natale si lega ad una leggenda che ha molto a che vedere con la tradizione cristiana e con le favole di morale, si narra infatti che un vecchio mercante si era ritirato a vivere da solo tra i monti.
L’uomo viveva solo, non si era mai sposato e non aveva piu’ nessun amico.
Il vecchio mercante si girava e rigirava, senza poter prendere sonno.
Uscì di casa e vide gente che andava da tutte le parti verso lo stesso luogo. Qualche mano si tese verso di lui. Qualche voce si levò:
- Fratello, – gli gridarono – non vieni?
Fratello, a lui fratello? Lui non aveva fratelli. Era un mercante e per lui non c’erano che clienti: chi comprava e chi vendeva. Per tutta la vita era stato avido e avaro e non gli importava chi fossero i suoi clienti e che cosa facessero.
Ma dove andavano?
Si mosse un po’ curioso. Si unì a un gruppo di vecchi e di fanciulli. Fratello! Oh, certo, sarebbe stato anche bello avere tanti fratelli! Ma il suo cuore gli sussurrava che non poteva essere loro fratello. Quante volte li aveva ingannati? Piangeva miseria per vender più caro. E speculava sul bisogno dei poveri. E mai la sua mano si apriva per donare. No, lui non poteva essere fratello di quella povera gente che aveva sempre sfruttata, ingannata, tradita. Eppure tutti gli camminavano a fianco. Ed era giunto, con loro, davanti alla Grotta di Betlemme.
Ora li vedeva entrare e nessuno era a mani vuote, anche i poveri avevano qualcosa. E lui non aveva niente, lui che era ricco.
Arrivò alla grotta insieme con gli altri; s’inginocchio insieme agli altri. – Signore, – esclamò – ho trattato male i miei fratelli. Perdonami.
E cominciò a piangere.
Appoggiato a un albero, davanti alla grotta, il mercante continuò a piangere, e il suo cuore cambiò. Alla prima luce dell’alba quelle lacrime splendettero come perle, in mezzo a due foglioline. Era nato il vischio.
Scritto da carlo moretti
Est die mala, de ierru frittu e de funadas de ranzola e nie. Finas sos mortos si tremen arpilados in sa tuda, che chi sa carrarzura ‘e sa terra beneita esseret fine che chelu ‘e aranzolu.
Tames ja b’at a chie su fritu non li corcat pilu.
Bore Mela ch’est intro s’ostera afraigadu, dai olta ‘e die, a su fundu ‘e su banchitu, solu, che jorra arrunzada, in su chizolu ‘e josso. Nemos lu calculat, s’iscuru. Finas sa butighinaja nd’est ivilida ‘e li narrer a si moderare, chi no li diat aer dadu a biere ateru ‘inu e chi sighende asie diat aer fatu fine mala. ‘Ero su sidis est prus malu ‘e s’abburruntu de Dominighedda e Bore, perricónchinu, a len’a lenu si che coghet biende a sucutu dai s’ampullone, che chi sa fémina aeret faeddadu a su muru.
E gai, bàrriu ‘e coighina, cun sa cara randinada ‘e suore, che ‘essit a “Arzolas” a isbentiare. Inie ja bi sulat fitianu, finats in s’istiu, su ‘entu ‘e sa “Punta”, e mal’e peus b’inchibberat continu in jerru. Cussa est sa meighina chi bi cheret, sinò torrende a domo gai jampanadu, ite briga ‘e mannos che nde diat bessire a pizu. Emmo mezus bessìchere a s’Arzola ‘e Punta: su arriu ja s’acconzat incaminu narat su diciu antigu. ‘Ero, coghi ‘ sighire a ala ‘e nanti, daghi che ponet pe’ in s’Arzola ‘e Mesu, leat a dereta , istontonende dai cresura a muru, abrunchende in s’impredradu iscumbessu, peri sa faladorza ‘e “Carrucana”. E che parat, malefadadu, in buca ‘e campusantu, a jaga ilbarizada, ciulende.
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Scritto da carlo moretti
(a su giornalista e poeta Paulu Pillonca)
Cun arma a coddu e cartuccera in chintu
pius no m”idene in Su Sassu, [1] inue
antigamente fit famosu igue
su logu pro bandidos fentomados,
chi de sa Benemerita soldados
lis han bastante su “grillette” astrintu.
Cue Giuanne Fais bandidende
b’hat passizadu longos sessant’annos
cun treghentos bandidos cori mannos
de iras pro S’anglona e pro Caddura.
Tra sa crudelidade fea e dura
istaian disastros semenende.
Cue tra rundas de rios e nassas [2]
movian in sas puntas pius altas
mannos unturzos cun alas ispaltas
pri mortozos de omines barvudos
assoliende in terrinos ervudos, [3]
tra chentu e una isceras de carcassas …
Cussu logu de sambene e timidu,
in tottue connottu pro Su Sassu:
l’hap’ eo attraessadu a passu passu
cando fia ficchidu e fia forte.
Già chi como sa dura malasorte
m’ha a pèssimu puntu reduidu.
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Scritto da carlo moretti
È una mattina d’agosto. Sull’ampio cielo, chiuso dalle linee sottili e frastagliate delle montagne, rese turchine dalla lontananza, passano grandi nuvole cenerine, come mandre di nebbia, che svaniscono sui lembi ancora limpidi d’azzurro.
Siamo sul sentiero che mena alla montagna, prima di arrivare ai boschi. Nella notte ha piovuto: il terreno umido, ma senza fango, ha preso dei toni oscuri color tabacco; è attraversato da solchi serpeggianti lasciati dai rigagnoli, e da linee di pietruzze che sembrano di lavagna. Grandi massi di granito, nudi, bruciati dal sole, chiudono il sentiero. Nessun albero ancora: solo grandi macchie di lentischio, e campi di felci dalle foglie dentellate, ingiallite dal sole ardente.
La gente sale lentamente il sentiero, a gruppi, o sparpagliata. V’è di tutto: uomini e donne, signore e paesane dal costume a colori fiammeggianti, con canestri ed involti: e bambini, quanti bambini! Tutti allegri, chiassosi, perché non sono ancora stanchi.
Tutti su, su, a poco a poco, badando di non inciampare, di non lacerarsi le vesti, di non rompersi le scarpette, volgendosi ogni tanto ad ammirare il vasto paesaggio, ripigliando fiato. La brezza fresca, pregna di profumi di boschi umidi, scende dall’alto, viene a scompigliarci i capelli e le vesti.
E si sale, si sale sempre: sotto quel cielo cinereo, nella luce opaca che vi scende, nessuna cosa, nessun colore ha una sfumatura, un luccichio; tutte le gradazioni sono distinte, tutti i profili sono nettamente disegnati: solo una piccola chiesa bianca, alle falde del monte, pare che mandi delle ombre chiare intorno intorno.
Entriamo nel bosco: è un bosco di elci secolari, grandissimi, che ergono al cielo le loro chiome maestose, lussureggianti di verzura, con un sussurro che pare mormori una sfida a tutti gli elementi, dalla procella furiosa dell’inverno al sole di fuoco dell’estate.
Ciò che ci colpisce vivamente all’entrata del bosco è l’inebriante profumo che prima ci veniva leggero con la brezza: è un profumo forte, quasi acre, come di fieno o di polvere bagnata. Certi sbuffi paiono di sigaro, di caffè versato sul fuoco, di vernice umida: certi altri sono invece dolcissimi, come d’incenso e di mirra bruciati.
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