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Archivio della categoria ‘Cultura e arte’

Amare Tzaramonte: ammentos de chida santa, recuidas de fide e de amore – de Anghelu de sa Niéra

Scritto da angelino tedde

Su giru de su sole e de sa luna cun issu,  die pro die si faghet pius lughente: pro a nois  est cumintzadu su tempus de  su sole.

S’emisferu australe s’illuminat semper pius e su boreale a pagu a pagu che ruet in s’iscuru. Sas dies nostras si faghent pius longas, cuddas issoro como  s’incurtziant de pius. E nois, fortunados, cun custu bellu sole, faghimus Pasca de Abrile.

Dae Putugonzu pigant  fintzas sos cantigos de sos isturulos chi c’amus catzadu dae su gialdinu, cun sas arvures a corros de becu, pro lassare sos pitzinneddos in logu siguru.

Dae sas baddes pigant sos belados de sos anzoneddos e sas rundines bolant subra sas cobisturias e girant a inghiriu de su campanile de Santu Matheu.

In s’Istradone sa tzente paret pius cuntenta ismentighende pro pagas dies sas gherras e su ciarra ciarra de sa televisione.

Calchi mama de familia e calchi giaja, in d’ogni carrela ue giogant ancora sos piseddos, fizos o nebodeddos, a s’antigoria ammannizant pabasinos e cadajinas puru si b’est sa Dulcaria Tzaramontesa ue si podet comporare de totu: copulletas, pabissonos, cotzulas de pistiddu, cadajinas e finza dulches de tzitade: ca sos tzaramontesos sunt licaldos dae cando ant postu mata.

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Amare Chiaramonti: memoria del passato, conferma di identità – di Anghelu de sa Nièra

Scritto da angelino tedde

Come potrei riconoscere la mia identità se non avessi la memoria del mio passato? Non solo è scritto sull’estratto dell’atto di nascita e sulla carta d’identità, ma nella memoria dell’infanzia quando i miei compagni mi chiamavano col nome e cognome, più spesso col soprannome.  Per dieci anni il mio nome e spesso il mio cognome lo pronunciavano le donne e gli uomini del vicinato, specie se combinavo qualche marachella.

A volte, più che col cognome, m’indicavano come su fizu de Angelinu Tedde, o semplicemente,  fizu de Serefina Pira, dato che nella zona viveva una cugina di mamma, anziana, chiamata Serefina Soddu.

La mia identità veniva data anche dall’indicazione del rione in cui abitavo, sa Niéra, memoria persa di un’antica ghiacciaia oppure ricordo collettivo della neve che in quel pendio esposto a nord di Codinarasa, sostava più che in altre parti del paese; neve, così familiare tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Quanti candelotti di ghiaccio strappati alle tegole dei tetti bassi e consumati come gelati!

A ricordarti la tua identità poi, sempre nel vicinato, c’erano i compagni Giovannino e  Ico Biddau, Faricu e  Giovannina Tolis, Margherita e Giovanetta Biddau, i fratelli Pisanu e le sorelle  Ruju-Cossiga, per dire soltanto dei ragazzi e delle ragazze. C’erano poi gli adulti: zia Domenica, zia Leonarda, zia Marietta, zia Nannedda, zia Mariantonia. Non sto a citare gli uomini le cui immagini si sono stagliate nella memoria  cadenzate dall’incedere dei cavalli o degli asinelli che cavalcavano oppure a piedi, ricurvi, con la bisaccia ripiena e con gli arnesi da lavoro sulle spalle.

Infine, c’era la strada, via Garibaldi, e le strade e piazze adiacenti dove si andava a giocare rumorosamente: Caminu ‘e Litu, Piatta ‘e Caserma, Codinarasa   su Mulinu ‘e su Entu.

Queste relazioni con le persone più vicine, con i luoghi presso cui sei vissuto, sono quelle che t’imprimono un marchio indelebile che solo la follia e la perdita totale della memoria possono toglierti.

Potrai vivere nelle lontane Americhe o in Australia, in Belgio o in Germania, in Piemonte o in Lombardia, a Varese o a Busto Arsizio, a Pinerolo o a Torino, a Catania o a Napoli, ma la tua identità non si cancella e con essa la memoria delle tue origini, con tutta la ricchezza delle emozioni  che suscitano.

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Studi sull’architettura dell’antica parrocchiale di San Matteo di Gianluigi Marras

Scritto da Gianluigi Marras

La parte più rimarchevole delle emergenze del sito è costituita dagli imponenti ruderi dell’antica parrocchiale di San Matteo, che occupano l’angolo nord-occidentale del pianoro di Monte Cheja.

Nonostante la solennità delle strutture mancano completamente studi architettonici e stilistici. Purtroppo la veloce degradazione di cui sono state oggetto, con il crollo e lo spoglio di molte murature, rende sempre più difficile la lettura del monumento. E se i recenti restauri hanno avuto il merito di bloccare (o rallentare?) il degrado e di consolidare la fabbrica, conseguenze non altrettanto positive ha avuto per l’analisi stratigrafica degli elevati. L’uso indiscriminato infatti di malte negli spigoli e nei punti di contatto fra i vari elementi architettonici, i rimaneggiamenti effettuati senza alcun rispetto delle tecniche originarie, donano si ai ruderi un candore piacevole a vedersi ma altresì appiattiscono e omogeneizzano le differenze originali.

In ragione di tale inibizione, oltre che della difficoltà dell’esame autoptico ravvicinato di varie porzioni del monumento, quella qui proposta non può che essere un’indagine incompleta e problematica in molti punti.

Si  espongono di seguito dapprima una breve descrizione stilistico-architettonica della chiesa e, di seguito, i risultati dell’analisi stratigrafica dell’elevato[1].

Lo studio stratigrafico è stato svolto secondo una campionatura che ha interessato circa il 60% delle strutture. La selezione è stata fatta sulla base di tutta una serie di ricognizioni non sistematiche, che hanno individuato una serie di problematiche e punti da controllare[2].

La chiesa di San Matteo ha posto sin dall’inizio una serie di quesiti di seguito riassunti:

1)          Si potevano individuare preesistenze architettoniche?

2)          In caso affermativo, erano pertinenti a strutture civili o religiose?

3)          Individuazione di eventuali fasi costruttive distinte della chiesa

4)          Riconoscimento delle tecniche costruttive

5)          Analisi delle dinamiche di cantiere.

6)          Cronologie assolute

A indagine, almeno parzialmente, conclusa si può affermare che i punti 1 e 3 hanno avuto una risposta soddisfacente, i punti 4 e 5 una spiegazione limitata mentre per il punto 2 si sono solo potute formulare delle ipotesi non verificabili se non con le tecniche dello scavo stratigrafico. Il punto 6 infine non ha avuto alcuna risposta, a causa della mancanza di qualsiasi indicatore cronologico assoluto.

Ad una prima osservazione il complesso architettonico (CA) è stato suddiviso in undici corpi di fabbrica (d’ora in poi CF):

Planimetria generale
Planimetria generale

§ CF 1, costituito dalla torre campanaria;

§ CF 2, cappella laterale orientale addossata al CF 1;

§ CF 3, cappella laterale orientale a sud di CF 2;

§ CF 4, cappella laterale orientale a sud di CF 3;

§ CF 5, cappella laterale orientale a sud di CF 4;

§ CF 6, la prima cappella laterale occidentale rispetto all’ingresso;

§ CF 7, cappella laterale occidentale, a nord di CF 6;

§ CF 8, cappella laterale occidentale obliterata, a nord di CF 7;

§ CF 9, abside quadrangolare;

§ CF 10, navata centrale della chiesa;

§ CF 11, cappella laterale occidentale rasata, a sud di CF 6.

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Ricordati domenica scorsa quattro minatori morti nelle miniere d’oro a Pestarena di Macugnaga. Tre di loro erano sardi.

Scritto da carlo moretti

Si è celebrato domenica scorsa, il cinquantesimo anniversario dell’incidente accaduto il 13 febbraio del 1961, nelle miniere d’oro di Pestarena in Valle Anzasca, provincia del Verbano Cusio Ossola a quattro minatori che persero la vita in un’esplosione mentre preparavano nelle viscere del Monte Rosa le cariche che avrebbe consentito l’avvanzare dei cunicoli sotterranei. I minatori erano un Bergamasco, Giovanni Offredi nato a Taleggio (BG) il 31.12.1908 e tre sardi, Salvatore Puddu nato a Seui (NU) il 29.01.1940, Antonio Argiolas nato a Villanovatulo (CA) il 04.07.1937 e Vito Utzeri nato a Muravera (CA) il 13.12.1902.

Negli anni bellici della Seconda Guerra Mondiale, le miniere di Pestarena garantirono a molti uomini l’esonero della chiamata alle armi, in cambio del lavoro nelle viscere del Monte Rosa. Dopo la fine della Grande Guerra e prima del boom economico di quegli anni, il lavoro nelle miniere d’oro della Valle Anzasca attirava numerosi lavoratori da diverse regioni d’Italia. Sono lunghe le liste dei cavatori, Veneti, Siciliani, Piemontesi e Sardi. Tutti lasciavano terra natia e affetti, per cercare pane e lavoro, così anche molti minatori del Sulcis-Iglesiente, furono costretti ad emigrare perchè le miniere di carbone in Sardegna chiudevano.

Pestarena arrivò a contare molte centinaia di lavoratori, tanti si erano portati dietro anche la famiglia, altri se la sono fatta nel posto. Era un centro industriale di prim’ordine. Un paese dove oltre al pane si assaporava la polvere della miniera, altro flagello che ha quasi cancellato una generazione di uomini che non superavano i 40 anni per via della silicosi. Tutta gente umile e spesso povera. Onesti lavoratori arrivati lassu e catapultati nella pancia del Monte Rosa.

L’incidente del 13 febbraio 1961 fù il pretesto definitivo per l’Ammi, Azienda Statale che faceva capo al Ministero dell’Industria e al Ministero delle partecipazioni statali, per chiudere le miniere d’oro di Pestarena, decretando la disperazione di molte famiglie che di colpo si ritrovarono senza lavoro. Eppure, vecchi minatori e i carotaggi effettuati durante gli ultimi anni di apertura da parte di tecnici sudafricani, affermarono che l’oro c’è ancora ed è in quantità rilevante, ma è giù nelle profondità della terra dove il paese affonda le sue radici.

Cinquant’anni dopo l’incidente, per “non dimenticare Pestarena” l’Associazione “Figli della miniera” ha organizzato una giornata in memoria dei minatori deceduti nell’incidente al Ribasso Morghen di Campioli. Alle 14:30, il parroco don Maurizio Medali ha celebrato la Santa Messa animata dal “Coro de Tzaramonte“, poi dopo una breve preghiera nel “cimitero del ricordo“, nella piazza si è officiata la benedizione e lo scoprimento di una targa commemorativa, alla presenza di Giovanna Boldini, sindaco di Macugnaga, Livio Tabachi, sindaco di Ceppo Morelli e l’On. Valter Zanetta.

Al pomeriggio commemorativo hanno partecipato il Coro de Tzaramonte, eseguendo durante la funzione religiosa i canti tradizionali e successivamente nella piazza alcuni canti di repertorio tradizionale sardo, omaggio ai caduti in miniera voluto dal presidente del circolo sardo “Costantino Nivola” di Domodossola.  Ha presenziato alla cerimonia anche la Banda Musicale di Ceppo Morelli.

Nel link seguente è possibile vedere un documentario che riporta come veniva eseguita l’estrazione delle piriti aurifere e dell’oro di Pestarena:

http://www.vcoazzurranews.tv/index.php?option=com_hwdvideoshare&task=viewvideo&Itemid=669&video_id=341

Per dovere di cronaca voglio anche trascrivere la bella poesia scritta dal poeta Valerio B. Cantamessi eclusivamente per i “figli della miniera” per Pestarena e la sua gente:

Il canto della Madre Terra (Pestarena)

Madre,
quel triste tuo canto
sorvola gli immobili abeti
avvolge e ghermisce ogni cosa
rimbomba oltre i picchi del Rosa
quassù, tra i compagni quieti
sui visi trafitti dal pianto

scolora le lacrime asciutte
condanna la vita stroncata
trafigge la persa fortuna.
Appesi alle falci di luna
guardiamo la valle dorata,
noi vite che furon distrutte

noi visi anneriti, la schiena
piegata, contorra alla terrra
violata da mani spezzate
non pace, non voli di fate
coi picchi e le pale la guerra
facemmo alla tua Pestanera.

Ma Madre,
nel buio silente
se mai tu potrai perdonare
l’averti in profondo trafitta
se infine alla nostra sconfitta
vorrai con dolcezza ridare
l’orgoglio dell’umile gente

allora le note contorte
del canto che avvolge ogni cosa
saranno armonia della vita
chèmai noi ti abbiamo tradita
ma ancor tra le braccia del Rosa
cantiamo il tuo canto di morte.

Valerio B. Cantamessi

Presupposti allo studio del carnevale sardo (1956) di Francesco Alziator

Scritto da carlo moretti

Dal punto di vista del nome del carnevale l’isola ci appare divisa – la divisione è naturalmente assai approssimativa – in cinque zone:

1) quella vastissima del Carnovali, che comprende tutta la parte meridionale, s’arresta intorno ai confini dell’Ogliastra, del Sarcidano ed agli estremi limiti dell’Arborea nella zona delle grandi lagune oristanesi;

2) la piccola zona orientale del Maimone accentrata nell’Ogliastra;

3) quella centrale, di non maggiore estensione, del Coli-coli della Barbagia;

4) quella occidentale, più vasta, del Carrasegare che dal Mandrolisai sale alla Campeda;

5) quella di grandissima estensione di Giorgio che dalle prime propaggini del Meilogu sale per tutto il resto dell’Isola, tutto abbracciando dal mare di Bosa alla Gallura, dalla Nurra al Logudoro e diffondendosi per pianori, valli, montagne e lidi.

Sono estremamente palesi le origini dei nomi Carnevale e Carrasegare, né alcun dubbio che il sostantivo Maimone significhi un essere demoniaco. Oscura, almeno per ora, appare l’etimologia di Coli-coli, né son del tutto chiare le ragioni del nome Giorgio. E’ assai probabile tuttavia che esso abbia origini bizantine e si ricolleghi al culto del santo guerriero la cui tomba, sulla via di Gerusalemme, era particolarmente venerata sin dal periodo nel quale l’Isola era sotto l’impero d’Oriente.

Ricorderemo che anche in Corinzia compare, tra gli Slavi di quella regione, un «verde Giorgio», un ragazzo rivestito di fronde che, in occasione della festività del Santo (23 Aprile), vien buttato in acqua per propiziare le piogge. Particolare della massima importanza e che, assai spesso, il «verde Giorgio» è un fantoccio che al momento del lancio in acqua sostituisce il giovane.

Aggiungerò che a Villanova-Monteleone ed altrove, in provincia di Sassari, Giolgi muore annegato.

Vi sono poi alcuni paesi che non si allineano con gli altri nella denominazione del fantoccio. Barumini lo chiama Papi Pata; Isili usava s’urdi de s’antrecoru; a Desulo è detto Zidicosu; a Mamoiada Mardis Sero, espressione assai chiara in quanto vale sera del martedì, cioè del martedì di Carnevale, e Dorgali ha Radjolu, parente stretto del Lardajolu cagliaritano e campidanese (giobia de Lardajolu = giovedì grasso).

Il processo e la condanna a morte sono variamente eseguiti, anzi, per essere esatti, diremo che il processo resiste sempre meno al volgere degli anni e così avviene del testamento del moribondo, mentre diffusissima e tenace è l’esecuzione della sentenza di morte del Carnevale che tuttora sopravvive nella stessa capitale sarda. Al rogo che è l’esecuzione più comune s’aggiungono talvolta i petardi, celati dentro il fantoccio. Inutile ricordare che i petardi sono sempre gli eredi di più antiche forme di allontanamento degli spiriti.

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Il castello di Chiaramonti: la Topografia – di Gianluigi Marras

Scritto da Gianluigi Marras

(E’ possibile cliccare sulle immagini per vederle a dimensione originale e sulle notazioni per accedere subito alle note)

Analisi topografica

L’area da me analizzata mediante ricognizione archeologica è nota nella cartografia catastale come San Matteo[1], ma viene chiamato popolarmente Monte e’cheja, ovvero “monte della chiesa”. La toponomastica riporta dunque memoria dell’antica parrocchiale di San Matteo, traslata poi nell’attuale sede nel 1888[2], e non serba traccia dell’antico castrum.

Effettivamente la prima ubicazione del castello nel sito è quella dell’Angius, seguito poi dal La Marmora e quindi dagli altri studiosi di storia sarda, nella prima metà dell’800. Ancora il Mamely de Olmedilla, nella sua Relazione del 1769[3] (scritta l’anno prima), descrive la parrocchiale[4], “…grande e non brutta né in cattivo stato…[5]; ci dice inoltreche la pianura dove è situata in passato doveva essere popolata, “…secondo quanto indicano le fondamenta di abitazioni[6]” senza però far menzione di eventuali torri o apprestamenti militari.

L’Angius[7] è invece il primo che identifica il sito della chiesa parrocchiale con l’ubicazione dell’antico castello. Al momento in cui scrive “…sta ancora tutta intera una torre, perché fattasi servire a campanile; sono di un’altra visibili alcune parti, ed è qualche vestigio delle mura, tra le quali la cisterna scavata nella roccia…”[8]. Il generale Della Marmora, che visitò il paese nel 1834[9],  riteneva invece che della costruzione militare non restasse traccia e che sul suo perimetro fosse sorta la chiesa[10].

Descrizione geografica

La collina di Monte e’cheja è una delle tre alture su cui insiste il centro urbano di Chiaramonti, più precisamente quella posta a nord-est, di fronte alla collina denominata Cunventu a nord-ovest e a quella di Codina Rasa, sud-est. Tutto il massiccio è posto a strapiombo verso la fertile vallata interna dell’Anglona ad est (dove sorgono gli attuali centri di Martis, Laerru e Perfugas) e la vallata del Rio Iscanneddu a nord e nord-ovest (nella zona è vitale attualmente solo il villaggio di Nulvi, ma nel Medioevo vi si contavano molti insediamenti civili e monastici), mentre degrada più dolcemente verso sud. Storicamente il centro di Chiaramonti rimase isolato dalle vie di comunicazione fino agli anni settanta dell’ottocento, quando venne costruita la strada statale da Ozieri e Castelsardo[11], che ancora lo attraversa.

L’area sottoposta all’analisi è costituita dal tavolato calcareo in cima a Monte e’cheja, posta alla quota di 467 m s.l.m.. I versanti si presentano piuttosto ripidi in tutte le direzioni: solo a sud-ovest c’è la possibilità di un’ascesa, mentre ad ovest, sud, nord e nord-est si nota la presenza di pareti rocciose verticali di varia estensione. Specialmente il versante ovest è costituito da un fronte roccioso alto circa 10 m, di quasi impossibile percorrenza, soprattutto nei mesi invernali.

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A Chiaramonti Gavino Loche venerdì, presenterà il suo nuovo CD “Where was I?”.

Scritto da carlo moretti

Tempo fa in un mio articolo, promulgavo la presentazione del nuovo disco di Gavino Loche presso il Birland Jazz Club, ma non ero a conoscenza di quello che la bella serata trascorsa con gli amici in quel bellissimo locale mi avrebbe regalato.

Oggi posso dire con certezza, ma non vi aspettate una critica musicale piuttosto un parere da musicofilo, che il disco trasmette delle emozioni uniche, dotato quasi esagerando di vita propria, in grado di abbracciare e stringere chi lo ascolta.

Il pensiero più ricorrente quando lo ascolto, è quello dell’infanzia trascorsa e a tratti della consapevolezza che purtroppo, siamo costretti a diventare e rammentare la nostra esistenza di persone adulte. Questo non deve però far pensare ad un qualcosa di melanconico o troppo triste, ma piuttosto alla speranza, le idee e nuovi progetti che Gavino Loche vuole trasmettere con la sua musica, unica, inedita e frizzante.

D’altronde le sue composizioni che si ascoltino in un pomeriggio di sole, pioggia o vento, trasmettono sempre le stesse sensazioni, in quanto il calore dell’estate o il freddo dell’inverno non mutano lo spirito del musicista.

Venerdì 10 dicembre alle 20:30, nella serata organizzata dal Gruppo XXL e dall’Associazione Musicale Sard Rock Cafè, mi aspetto che tanti, musicofili e amanti della buona musica, siano con me nella Sala Consiliare presso il Centro Sociale a Chiaramonti per applaudire un artista/musicista, che in questi anni durante la vice direzione e la docenza nella scuola Civica di Musica, ha invogliato e risvegliato l’animo musicale di tante persone.

In questo articolo non scriverò per l’ennesima volta la sua biografia, ma vi invito a visitare il suo sito, dove è possibile ascoltare anche alcuni brevi spezzoni dei suoi inediti e visionare alcuni filmati dove Gavino è all’opera.

Per visitare lo spazio web di Gavino Loche cliccate qui.

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