Archivio della categoria ‘Cultura e arte’
Scritto da carlo moretti
Il complotto si fece, come tutte le riunioni importanti che i parenti Coìna dovevano avere fra di loro, se a queste era necessario che assistesse il nonno, appunto nella cantina del nonno Bainzone.
Il nonno Bainzone era stato sempre un uomo giusto, di buona coscienza: ormai vecchio e quasi impotente passava i giorni accanto alla sua porta, come un idolo di legno messo lì a guardia della casa. Non parlava mai: passava il suo tempo a guardare e giudicare fra di sé la gente che attraversava la strada.
Viveva con la figlia minore, Telène, vedova d’un ricco massaio, e col nipotino Bainzeddu figlio di lei; ma continuamente gli altri figli e i nipoti e i pronipoti lo visitavano, specialmente per chiedergli parere e consiglio in certi gravi casi di coscienza, salvo poi a non dargli retta. Ma il solo pensiero che egli sapeva ciò che essi volevano fare, anche se ingiusto, sopratutto se ingiusto, acquetava la loro coscienza: così se qualcuno li rimproverava essi potevano rispondere pronti: il nonno non ha detto niente.
E questo bastava, per acquetare tutti. Da qualche tempo, però, il nonno non rispondeva neppure alle loro questioni: li guardava e li giudicava, fra di sé, come la gente della strada, e il suo silenzio li incoraggiava maggiormente. Tutti i giorni qualcuno di loro veniva: se la conferenza era di lieve importanza si svolgeva davanti alla porta; se no il nonno doveva alzarsi, aiutato dal parente, attraversare lo stretto androne su cui davano le porte della cucina e della domo ‘e mola, la stanza della macina per il grano, scendere i sette scalini ed aprire la cantina.
Nella cantina si poteva parlare con tutta libertà, senza essere ascoltati dai vicini di casa e dai passanti; e poi si beveva.
- Santone, coraggio, andiamo alla festa – gli diceva quel giorno battendogli lievemente le dita sulle spalle e conducendolo cautamente giù per i sette scalini Antoni Paskale, il più bello dei nipoti, un giovane alto e forte noto a tutti per la sua prepotenza.
Seguivano gli altri, dal passo pesante. Erano tutti vestiti di nuovo, e alcuni un poco alticci perché un pomeriggio di festa, il giorno della Pentecoste.
Il vecchio si lasciava portare, appoggiando la mano alla parete; ma il suo viso duro, nero, circondato da una grande barba giallastra che saliva fino alle tempia ove si confondeva coi capelli e con le folte sopracciglia a ricciate, e i grossi occhi gonfi, nerissimi, esprimevano una resistenza interna, un diffidare cupo, irriducibile.
Giunti alla porta della cantina parve esitare, prima di trarre la chiave che teneva sempre con sé; poi accorgendosi che Antoni Paskale tentava di frugargli in tasca si decise, e aprì tastando con le dita la serratura per trovarne il buco. La porta era grande e solida come un portone, fermata a metà, di dentro, con un lungo gancio di ferro arrugginito; l’altra metà si aprì, ne uscì un odore di sotterraneo, di formaggio e di vino, e apparve l’interno misterioso.
Per tutti quegli uomini e quei giovani forti che seguivano il nonno, il luogo era stato sempre ancor più misterioso e attraente d’un ripostiglio che esisteva nella casa di uno di loro, Paulu, il primogenito del vecchio Bainzone; si diceva che questi teneva là dentro nascosto un tesoro e perciò non dava mai a nessuno la chiave; si diceva poi che chi entrava con un dispiacere ne usciva allegro, e questo era vero perché c’era del vino forte e una provvista d’acquavite.
Tutti i giovani, passando, toccarono il palo del gancio, col quale s’erano esercitati, da ragazzi, fuggevolmente, nei giorni in cui si rimetteva il vino e la porta rimaneva un poco aperta. La luce pioveva da un finestrino alto inferriato spandendo un chiarore argenteo sulle botti nere dalla faccia rossa, allineate come altrettante sorelle.
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Scritto da carlo moretti
Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo.
Eri nella carlinga,
con ali magline, le meridiane di morte,
- t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura.
T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo.
Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri,
come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi».
E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino ate, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Omine de su tempus meu de Minnia Fenu
Ses ancora cuddu de sa pedra e de sa frunda,
omine de su tempus meu.
Fist in su fusu de s’apparecchiu,
cun sas alas malignas, sos mesudies de morte,
- t’hapo ‘idu – intro su carru ‘e fogu, cunsiente a sas furcas
e a sas rodas de tortura.
T’hapo ‘idu: fisti tue,
cun s’iscienzia tua pretzisa cunbinchida a s’isterminiu,
senz’amore, senza Cristos.
Has bocchidu ancora,
coment’e sempre, comente ‘occheini sos mannos nostros,
comente ‘occhein sos animales chi t’han bidu sa prima ‘olta.
Custu samben fiagat pretzisu che-i sa die
chi su frade nelzeit a s’ateru frade:
«Ajò a sos campos».
Cussu rembumbu frittu, ostinadu,
est bennidu finas a tie , intro ‘e sa die tua.
Ismentigade, fizos caros, sas nues de sambene
pigadas da-e terra, ismentigade sos babbos:
sas tumbas issoro affungana in sa chijina,
sos putzones nieddos, su ‘entu, covacana su coro issoro.
Scritto da carlo moretti
Concludiamo con i brani seguenti, la gara poetica a Seui nel 1996 tra Marieddu Masala e Juanne Seu, alcuni giorni fà abbiamo pubblicato il secondo tema e ora per terminare vi proponiamo la fase finale con “Duinas”, “Battorinas” e sa “Dispedida”.
Oltre i versi, troverete all’inizio di ogni genere, un lettore mp3 che vi consentirà di sentire la registrazione della gara. La necessità di dividere la registrazione in tre parti, è unicamente una mia scelta, dovuta al fatto che con spezzoni di files più piccoli, sono agevolati all’ascolto anche gli utenti con linea non ADSL. vi consiglio di avviare il lettore prima di iniziare la lettura dei versi.
Buon ascolto e buona lettura.
MARIEDDU MÀSALA / JUANNE SEU
Festa de Santu Pitanu
Seui, su 4 de Austu de su 1996
DUINA
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Scritto da carlo moretti
Di Grazia Deledda:
Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l’ultima, e guardava già per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie.
Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendenti ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani.
In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di muschio giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza.
Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo; però una leggera nuvola era apparsa dopo due anni di completa felicita sul cielo sereno della sua esistenza. Saveria non lo aveva reso né ancora accennava a renderlo padre! Era una cosa ben triste! Egli l’aveva tanto sognato un bel marmocchio bruno come lui che appena in gambe l’avrebbe seguito su e giù, fra i boschi e le valli, aiutandolo nelle dure fatiche di pastore; un marmocchio che poi, fatto forte giovanotto, la gioia e la speranza dei suoi vecchi, ammogliandosi avrebbe a sua volta tramandato il loro nome e la discendenza dei loro armenti in un altro, e così via pei secoli dei secoli! Tutti gli avi di Antonio erano stati pastori: e questa gloria egli sognava di continuarla ma come fare se non veniva l’erede?
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Scritto da carlo moretti
Di Grazia Deledda:
Zio Salvatore, il nostro vecchio fattore, cominci:
- Figlioli miei, io non sono stato sempre agricoltore: ero nato per diventare qualcosa di grande, prete almeno, ma i casi e l’estrema povertà della mia buona mamma, non lo permisero. Tuttavia durante la mia fanciullezza feci il sagrestano nella nostra chiesetta di San Giuliano, e solo allorché, smessa ogni vocazione religiosa, pensai di ammogliarmi, mi scossi via il profumo d’incenso e di cera che esalava dalle mie vesti, e, vestitemi le ghette mi posi a lavorare la terra. Sentite dunque: era l’ultimo anno della mia… segrestania e ne contavo già ventidue.
Una sera di novembre, all’imbrunire, me ne stavo seduto al di fuori della nostra casetta, sul carro di un vicino, e guardavo in fondo alla via. Siccome faceva freddo nessuno si degnava tenermi compagnia, e anch’io, certo se non fossi stato spinto da un forte motivo, non sarei rimasto là. Vedevo i monti, già coperti di neve, tutti velati di nebbia, sentivo già dal cielo fosco stillare un’umidità gelata che trapassava il mio cappotto, e il vento freddo m’imporporava il naso, eppure non mi muovevo. Il campanile nero di San Giuliano, facendo di tanto in tanto capolino fra la nebbia e le tinte fosche dell’imbrunire, mi avvertiva esser l’ora di recarmi a sonar l’ave, eppure io restavo là duro, stecchito, immemore del mio dovere. Ciò che più mi tentava era l’allegro schioppettare del fuoco, dentro, nella nostra cucinetta calda ove mamma preparava un buon minestrone di fagiuoli con cavoli, un vero lusso sapete, aizzando ogni tanto con la sua voce tremula l’asinello che funzionava ancora, monotono e lento, intorno alla macina in un angolo della cucina. Guardavo ogni tanto il tetto basso e umido che fumava e il pensiero del buon fuoco accresceva il mio freddo, pure non mi muovevo, come fossi incantato. Ah, se, ero proprio incantato. Un’ora prima, all’uscita della novena, Graziarosa, mi aveva detto con mistero:
«Compare Batò, devo parlarvi: attendetemi fra un’ora davanti a casa vostra.»
Graziarosa parlarmi, darmi un convegno! Era una cosa che io non sognavo neppure: perché dovete sapere che, innamorato pazzo di lei, lei non mi aveva mai voluto ascoltare, anzi mi derideva chiamandomi: compare campanile! Come soffrivo Dio Santo! Graziarosa si credeva un gran che perché serviva in casa del Sindaco, il più ricco signore del paese, e accompagnava la padroncina Donna Daniela, a passeggio; era una bella ragazza, Graziarosa, con gli occhi verdi, e io ne andavo pazzo: ma lei non mi dava uno sguardo, anzi pretendeva di maritarsi con un signore! Figuratevi però che signore! Uno che avesse pantaloni, ecco, talché io, esasperato, quando lo seppi, le cantai persino sotto la sua finestra, una canzone infame:
Teracas chi signoras bos cheries..
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Scritto da angelino tedde
Eravamo un gruppo di nove ragazzini, in Chiaramonti, nel rione de Sa Niera: nei pochi metri quadrati di via Garibaldi 17, il più grandicello era Giuanninu mentre Angelinu, Ico, Faricu quasi coetanei; le ragazze: Margherita, Giannedda, Giuannina, Toiedda e Matteuccia, queste, mie sorelle. Si giocava insieme dalla mattina alla sera, scorrazzando tra la casa Grixoni e quella meno agevole dei fratelli Pisanu: Placida, Ottavio, Giulio, Toeddu.
Corsa, bagliaroculos, imbrestia (gioco al sasso piatto) monteluna e le ragazze, a brucio, saltellando ad una gamba dentro i quadrati disegnati con la carbonella.
Spesso si sconfinava nella stradina a larghe scaline che portava in via Cavour, quasi dentro la casa di zia Lucia Tedde e più in là di zia Ziziglia, la più insopportabile insieme a zia Mariantonia, che vigilava da un piano sopraelevato, all’angolo, del vicoletto, che portava alla strada più alta de sa Niera. Non potevamo che stare insieme dal momento che Giuanninu, Ico, Margherita e Giuannedda erano figli di zio Peppeddu Biddau e di zia Leonarda Porcheddu che abitavano il piano sopraelevato al nostro di proprietà di zia Filomena Tedde, emigrata a Perfugas con zio Bachisio Ortu.
Sotto, in quella che era stata la casa prima di mio bisnonno Antonio e poi di mio nonno Matteo, stavamo noi, figli di Angelinu Tedde, senior, e di Serafina Linda Piras.
Nostri dirimpettai erano Giuannina e Faricu, figli di zia Marietta Succu e di zio Giuanne Tolis.
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Scritto da carlo moretti
Continuiamo con le gare di poesia sarda.
Vi invitiamo a leggere e ascoltare il secondo tema della gara poetica tra Marieddu Masala e Juanne Seu a seguito del primo tema già pubblicato con il precedente articolo del 16 novembre 2008.
Oltre i versi, troverete circa ogni dieci ottave, un lettore mp3 che vi consentirà di sentire la registrazione della gara. La necessità di dividere la registrazione in tre parti, è unicamente una mia scelta, dovuta al fatto che con spezzoni di files più piccoli, sono agevolati all’ascolto anche gli utenti con linea non ADSL. vi consiglio di avviare il lettore prima di iniziare la lettura dei versi.
Buon ascolto e buona lettura.
MARIEDDU MÀSALA / JUANNE SEU
Festa de Santu Pitanu
Seui, su 4 de Austu de su 1996
Secondo tema: MUZERE FEA E ONESTA,
MUZERE BELLA E DISONESTA
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