9
giu
2013
Domenica 16 giugno a Chiaramonti Loc. sa Funtanazza – FILIERA DELLA LANA
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9
giu
2013
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29
mag
2013
11
mag
2013
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2
apr
2013
Gesù risorge trionfante e bello.
Pieno di splendore.
Si commuove il mio cuore.
Del male che ho fatto
Egli mi perdonò…
Così iniziava la prima poesia che la mia splendida maestra, dagli occhi grandi e azzurri, Maria Athene, apprezzò talmente da pubblicarmela su un giornalino scolastico a stampa, nel ’49. Quanto c’era però, in quei versi di tardo-scolaro di scuola elementare, dei ricordi della Pasqua, delle visioni liete della mia infanzia dolce di ragazzo di strada, a Sa Niera, in Chiaramonti, il mio dolce paese di collina che mi faceva e tuttora mi fa vibrare il cuore?
Dopo i tre giorni di lutto generale, per la morte di Cristo, il legamento delle campane, la processione de “S’Incontru” al mormorio delle invocazioni, subissate dal gran fracasso de “sas matraccas”, si diffondeva nelle vie del paese, confondendosi con l’aria frizzante che si respirava, il profumo de sos pabassinos, de sas cadajinas, de sas cotzulas de pistiddu, de sas copullettas. Dai fumaioli delle case usciva il profumo di mandorle dolci e amare. C’era nel borgo un sommesso chiacchiericcio, uno scambio di aiuto tra le famiglie di contadini e pastori, una profusione di bravura dolciaria tradizionale incontenibile e una generosità del donare e del ricevere.
Molte porte si aprivano per ricevere un dono, altrettante si aprivano per portare un dono. Messaggere silenziose e garbate, le preadolescenti, il cui sguardo sapeva ancora di fanciullezza.
In quest’atmosfera da fiaba, mentre il Cristo scendeva agl’Inferi, per riportare in Cielo gl’immalinconiti Patriarchi, il borgo viveva l’attesa di Pasqua.
La mattina del giorno tanto atteso, nella chiesa di San Matteo, dopo la proclamazione del Gloria, le campane si scioglievano suonando a distesa, con tintinnii e toni diversi, mentre le rondini svolazzavano fra i tetti e dai prati e dalle colline in fiore, spiravano brezze e colori.
E noi bambini di strada, non rivestiti come i chierichetti, pavoneggiatesi in tonachine rosse e cotte bianche, accanto al Vicario nel massimo splendore liturgico, avevamo un bel da fare nelle case con adeguati bastoni a picchiar sulle cassapanche, forse a cacciare i diavoli che avevano occupato spazi impraticabili con il Cristo Risorto.
Al termine della Messa di Pasqua le campane riprendevano a suonare a distesa e un’imponente processione attraversava le vie principali del paese. Eccolo allora il Cristo Risorto avanzare nel trionfo della sua vittoria sulla morte, seguito dalla Vergine rivestita da una tunica bianca e ricoperta da un manto azzurro. Tutto il paese si poneva alla sequela delle due statue in processione, anche quegli uomini duri e impacciati che per dodici mesi l’anno se l’erano spassata con i peggiori diavoli del borgo.
Noi bambini di strada, da punti strategici, nel caso mio e dei miei amici, dal muro di sostegno della casa Grixoni, sbarrando gli occhi, guardavamo finalmente Gesù Risorto e sua Madre tutta felice. Non mormoravamo preghiere, ma guardavamo la folla che ondeggiava, mentre le campane continuavano a risuonare a festa.
Un segno di croce, fatto alla buona, quando passavano Gesù e Maria e poi richiamati, dalle mamme, ci si apprestava a gustare l’agnello, appena tolto dal forno. Le campane però continuavano a squillare come una benedizione sulle piccole case di piccola e povera gente, felice di respirare l’aria profumata di Pasqua.
28
mar
2013
“…..«Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva …..”
Con la messa del giovedì Santo inizia il triduo della Passione di Cristo. Tutto inizia in una casa presa in affitto dai discepoli per celebrare la Pasqua ebraica, dove Gesù, sapendo che sarebbe stato tradito e la sua morte era prossima, istituisce l’Eucarestia e da Maestro si mostra servo agli occhi dei suoi fedelissimi con la lavanda dei piedi.
E’ l’ultima volta che Gesù cena con i discepoli prima della resurrezione, distribuendo il pane dopo averlo spezzato e versando il vino in un calice anche questo sorseggiato da tutti, ci dice, che quelli sono il suo corpo e il suo sangue, segno che non ci avrebbe mai abbandonato e che Lui sarebbe stato pronto a morire ancora per noi.
Dalla casa di Gerusalemme ci spostiamo nel nostro paese, dove per tradizione la Settimana Santa viene preparata dalla Confraternita di Santa Croce e il giovedì prima della celebrazione della nascita dell’Eucarestia il sacerdote rievoca la lavanda dei piedi con i dodici apostoli. Sono momenti suggestivi, profondi che preparano al significato del sacrificio del Figlio dell’Uomo.
La messa termina col canto del “Tantum Ergo” che accompagna il Santissimo Sacramento in processione all’altare della reposizione preparato con gli ornamenti tradizionali dei “sepolcri”, germi di grano fatti germogliare al buio per conservare il loro colore immacolato. La funzione termina in silenzio.
Nello stesso silenzio si preparano le processioni, una parte dalla Chiesa di San Matteo e porterà la Croce, segno della passione e l’altra parte dalla Chiesa del Rosario con la Madonna Addolorata. Dopo aver compiuto in processione due percorsi diversi avviene l’ultimo incontro tra Gesù (la Croce) e sua Madre, prima della notte che vedrà il Cristo arrestato e condannato a morte.
Alla fine dell’incontro le due processioni tornano nelle rispettive Chiese di partenza.
Nella parrocchia dopo la processione ,viene simboleggiata con una veglia di preghiera, l’attesa dei discepoli al monte degli ulivi nel podere chiamato Getsémani, prima dell’arresto di Gesù. I riti si concludono con la preghiera comunitaria.
La mattina dopo, di buon ora, i discepoli della Confraternita Santa Croce, accompagnano in processione per tutte le chiese presenti all’interno del paese, la Madonna Addolorata in cerca di Gesù (Sa Chiscas Mudas). In silenzio un manipolo di discepoli e di fedeli guidati dal parroco, segue la Madonna in cerca del Figlio arrestato la sera prima.
Simbolicamente lo ritrova in Parrocchia, dove viene innalzata la Croce per la crocifissione e vi viene collocata la statua del Cristo (s’Incravamentu). La funzione prevede una preparazione metticolosa da parte della Confraternita che ci proietta alla funzione serale, quella culminante, dove Gesù muore sulla Croce e i suoi discepoli Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea provvedono alla sua deposizione.
“….«Padre mio, se è possibile allontana da me questo calice di dolore! Però non si faccia come voglio io, ma come vuoi tu». Poi tornò indietro, verso i suoi discepoli e li trovò addormentati. Allora disse a Pietro: «Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me? Vegliate e pregate per resistere nel momento della prova; perché la volontà e pronta, ma la carne è debole». ……”
Cliccando qui invece, potrete accedere alla foto-Gallery de Sas Chiscas Mudas e s’Incravamentu.
25
mar
2013
“…..Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto….. E Lui al mondo rispose: «Padre perdonali perché non sanno quello che fanno..». …..”
La suggestione al quale richiamano i riti della Settimana Santa nel nostro paese, sono sempre emozioni nuove che si rinnovano di anno in anno. Ieri sera la deposizione (s’Iscravamentu), svolto all’interno della funzione liturgica, è stato arricchito dalla presenza dei numerosi giovani, già intervenuti per la via Crucis. La presenza delle pie donne ai piedi della Croce e del Cristo morto, i soldati romani a vegliare sull’operato dei discepoli, ha regalato emozioni come mai mi era capitato di provare e personalmente penso anche ai presenti.
I cori, de sos Apostulos e Parrocchiale, diretti dal M° Salvatore Moraccini, hanno animato con i canti liturgici e lamentosi di perdono, tutta la funzione officiata dal don Virgilio Businco e da Mons. Antonio Loriga.
Questo rito antico, ricevuto con molta probabilità dalla presenza dei catalani ad Alghero, prevede che il predicatore spieghi e racconti al popolo i momenti più importanti della deposizione a opera dei discepoli Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea. Quest’anno Mons. Loriga ha introdotto s’Iscravamentu in lingua sarda, con i versi dello scrittore, sacerdote e teologo Pietro Casu, autore già noto per il brano “In sa notte profunda” cantato dal Coro Parrocchiale.
E così, leggendo i versi dello scrittore di Berchidda, traduttore tra l’altro della DIvina Commedia in lingua sarda, che Mons. Loriga ha guidato i gesti di Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea che secondo un’antica rappresentazione hanno estratto i chiodi conficcati nelle mani e i piedi del Cristo giungendo così alla deposizione.
Una sacra rappresentazione all’interno della funzione liturgica, non pagana ma ben integrata con la sacralità dei gesti, come il bacio ai piedi del Cristo e del legno della Croce ormai spoglia. Al termine di questo atto di pietà da parte del popolo, Gesù viene adagiato sul lettino di fiori preparato con cura dalle donne che si prodigano nella Settimana Santa nei preparativi della Parrocchia.
Gli stessi fiori (romagliettes), distribuiti alla fine della processione, che i giovani un tempo utilizzavano il sabato notte dopo la veglia pasquale per manifestare il loro amore alle innamorate, oppure paglia se queste fossero delle ragazze troppo vanitose e superbe (oggi i ragazzi direbbero: acide).
Al termine della funzione liturgica, ha inizio la processione del Cristo morto seguito dalla Madonna Addolorata, e qui mi sono emozionato a vedere per la prima volta uno scenario quasi completo nel nostro corteo, le pie donne che accompagnano il feretro di Gesù e i romani quasi a verificare che tutto si svolga senza gli imbrogli temuti dai Farisei, cioè che il Cristo venisse trafugato nella notte dai discepoli per far credere alla gente che fosse veramente Risorto.
A vedere Gesù nel suo lettino non ho potuto fare a meno di pensare al dolore e alla sofferenza dei nostri fratelli in Abruzzo che hanno veramente vissuto un venerdì di passione, per loro non sarà solo una Settimana Santa di travagli e disperazione. Penso a tutti quelli che non hanno più niente, hanno perso i loro cari o gli amici più intimi, penso a quelle bare bianche…. Auguro a tutti che la Resurrezione di Cristo, sia per loro motivo di rinascita e speranza, perché è vero che il passato non si può cancellare, ma siamo sicuri che il futuro è nostro e dei nostri figli.
“…..Nella Bibbia Dio pone domande, solleva interrogativi, stimola la libertà e la scelta dell’uomo. Fin dalle prime pagine della Genesi, il “Dove sei?” di Dio raggiunge l’uomo liberandolo dalla vergogna in cui si è rannicchiato dopo il primo peccato. Allo stesso modo, nel cuore del mistero pasquale, quel “Donna, perché piangi?” asciuga le lacrime di una comunità smarrita, restituendo ai discepoli la speranza e la fiducia. ……”
15
gen
2013
Apriamo dopo un lungo periodo di silenzio, dovuto a vicende personali, l’esercizio 2013 del nostro sito.
Lo facciamo piacevolmente con l’annuncio e una breve introduzione del nuovo libro scritto dall’autore e nostro compaesano Salvatore Patatu, riportante un’immagine sia realistica, sia immaginaria, della vita vissuta e reale del nostro paese. Il nuovo libro dal titolo “BOGHES E CARAS ANTIGAS de su Mulinu ’e su ’Entu”, sarà introdotto sabato 19 gennaio 2013 alle 0re 17:00 nella sala consiliare, dopo il saluto del Sindaco Marco Pischedda, del Presidente della Pro Loco Giovanni Soddu e l’intervento dell’Assessore alla Cultura Maria Antonietta Solinas, dal Prof. Manlio Brigaglia. Seguiranno la lettura di alcuni estratti ad opera di Domitilla Mannu e la conclusione dell’autore che aprirà il dibattito conclusivo.
L’ultima fatica di Salvatore Patatu, Boghes e caras antigas de su Mulinu e’ su ‘Entu, riporta la Prefazione di Paolo Pulina, edito dalla Tipografia TAS, Sassari 2012 di pagine 170, riporta un CD Audio allegato con voci di Salvatore Patatu e di Domitilla Mannu che praticamente aggiungono un audio-libro, atto a facilitare la lettura del libro e la comprensione della lingua sarda.
Con l’autorizzazione dell’autore, trascriviamo il primo dei capitoli dell’opera in lingua sarda. Se gli episodi, anedoti e poesie, raccontati nel primo capitolo, riesce a tenermi attaccato alla lettura già ora, posso solo immaginare come provocheranno la mia attenzione le pagine successive. Buona lettura a tutti.
Aia apenas ùndighi annos cando, finida sa cuinta elementare, apo comintzadu a fàghere su mulinarzeddu pro agiuare a babbu. Su mulinu fit in una carrela chi dae issu leaiat su nùmene: carrela ‘e Mulinu. In italianu si naraiat Via Pasquale Tola e-i como, dae cando in su 1971 ant ammanizadu mezus sos nùmenes de sas carrelas, si narat via Raffaello Sanzio. Sas domos de-i custa carrela, tando, fint totu pienas de zente e de atividades. A in altu, a dainanti a sa domo de tiu Peppe Seu, b’aiat una funtanedda e, a ojos, sa butega de ’arveri de Peppinu Pala. In mesania su mulinu e-i su butighinu, cun su bigliardu e, in basciu, sa butega de cartzeraju de tiu Cicciu Boe, chi tribagliaiat cun tiu Nenardu Cadorna, su connadu, e cun Mario Soddu, su nebode, innanti chi si ch’esserat emigradu in Isvìtzera. A inie andaiat zente meda a si bistentare e a arrejonare de incunzas e messeras, ma puru de lendas e àteras chistioneddas chi sutzediant in bidda.
Sa gianna de mulinu fit pròpiu a dainanti de sa mesania tra su butighinu de tia Nina e-i sa domo de tiu Giuannandria Migaleddu, a duos passos dae sa carrela de tiu Tomeu, dae ue, imbichèndela e totu, ’idias (e las bides alu como) sas palas altas e poderosas de su campanile de sa cheja de santu Mateu, chi pariat suspesu, brighende e minatende sa domita bascia, mancari a duos pianigheddos, de tiu Zerrete, chi li fit pròpiu suta pes, a parte de segus, ue, in una cortita, serrada dae duos muros male incarchinados, in unu putu, falaiat su filu de ràmine russu de su parafùlmines. Su mastru de iscola, Nino Sanna, nos aiat nadu chi de comente falaiat unu raju dae s’aera, beniat atiradu dae sa chima puntzuruda fissada in sa pubulea de su campanile e che l’inzitaiat a fortza, fatèndelu inghiriare a atorinadura in su filu, fintzas a su putu, ue s’istudaiat che candela isteàrica in su cadinu. Nois iscolanos immaginaimus su raju allutu intrèndeche in s’abba de su putu, friende che-i su ferru caldu de mastru Tigèlio, cando, daboi de l’aer bene mazadu a colpos de marteddu subra a s’incùdine, ammuntenzèndelu cun una tenatza longa, che l’imberghiat intro una pica piena de abba pro l’ifritare. Su ferru ch’intraiat friende che cando s’ozu est buddende in su frisciolu, e chi ‘etas una tatza de abba frita. A nois pariat puru de intèndere su fiagu de s’abba brujada e de ‘ìdere sa poporada chi pienaiat su fraile.
Deo, ogni manzanu, falaia currende e cantende. Essende dae domo, in carrela de sos putos, passadu su bicu de Foareddu, falaia a dainanti a sa domo de tiu Antoni Luisi ‘Udrone, ch’imbicaia in su tirighinu a costazos de cheja, boltaia a manca a dainanti a sa domo de tiu Tambeddu, falende pagas iscalinas a impedradu, longas e bascias, boltaia a dresta serente a sa domo de tia Maria Villa, arrivende a dainanti a sa domo de tiu Pàulu Casella, a costazos de su mulinu ue, intrende mantessi, sessaia de cùrrere e . . . de cantare.
De comente si intraiat, a dresta, bi fit s’ufiscigheddu, cun un’iscriania minore, una ventana cun sa ferrada, ue a s’ala de fora sos fitianos, cando sas lòrigas non bastaiant, bi ligaiant àinos e caddos, ch’istaiant tota s’ora marrende e pistende s’impedradu, in chirca de si catzare calchi musca caddina chi si ‘etaiat abbudronada, che puzones de abe, in sas partes dìligas dei cuddos pòveros animales. Addainanti a s’ufiscigheddu bi fit su pesu, ue si falaiant sas còrvulas e-i sos sacos pienos de trigu, onzi pesada beniat assentada in unu rezistru gai comente su tantu de su dinari chi si deviat pagare pro su marghinonzu. Dae su rezistru si distacaiat una bulleta cun su nùmene de su padronu o sa padrona de su trigu, e andaiat intzufida a bicu a fora in su trigu de sa còrvula o ispiglionada a su sacu.
A manca b’aiat unu parastagiu de linna longu, largu e basciu, pro bi pònnere subra sas còrvulas pesadas, pienas de trigu, in s’isetu de lu marghinare. Suta a-i custu parastagiu, poniaimus sas còrvulas cun sos sacheddos de sa farina marghinada, pronta pro che la giùghere a domo. Dae su colore de sos sacheddos, sas padronas (e deo puru) reconnoschiant sa còrvula issoro.
Sempre a dresta, a s’àter’ala de su pesu, bi fint sas duas molas, acollocadas subra a un’intauladu mannu, a ue si pigaiat cun sa còrvula a cùcuru, in un’iscala de linna cun chimbe iscalinas, pro ch’imbolare su trigu in su mojolu. Dei custas molas, una fit lena e marghinaiat pius pagu de unu cuintale a s’ora, mentres chi s’àtera, pius lestra e pius moderna, cun su motore pius nou, giampaiat su cuintale.
Passadas sas iscalinas, bi fit su cuadru elètricu, cun totu sos aniveglios netzessàrios: su voltometro, bator amperòmetros, interrutores a burteddu, unu mannu chi leaiat sa lìnia intrea de totu su mulinu e àteros pius minoreddos, unu pro onzi màchina; sas vàlvolas a fusìbiles de filu de piùmu, prontos a s’isgiòlvere, in casu de problemas pro neghe de cuntatos male cumbinados; o, puru, si sa currente s’abasciaiat o pigaiat tropu de colpu e poniat in perìgulu sos motores. Pro pònnere manos in su cuadru, si deviat distacare s’interrutore generale, pighende a subra una peagna de linna, isulada dae terra pro mesu de bator tacos mannos, fatos dae isuladores russos e apoderidos.
A costazos de su cuadru elètricu, in basciu, b’aiat un’àidu, in ue si passaiat, gruscèndesi, pro intrare a suta de cuss’ispessia de mesusostre ue fint sas molas. In sas traessas de s’intauladu, b’aiat unu paju de istampas, acurtziendebi sos ojos, dae suta, si podiat abbaidare comente dae unu cannociale ite b’aiat subra. Tando deo, cando non bi fit babbu e in mulinu b’aiat calchi bella pitzinna isetende, li naraia chi apena finiat su trigu chi fit marghinende, chi ‘etaia su sou. Mi preguntaiat si deviat imbarare tempus meda e deo li naraia: “Piga a subra e abbàida tue mantessi cantu trigu b’at in su mojolu”. Issa bi pigaiat e deo in lestresa ch’intraia a suta s’intauladu e abbaidaia dae una de sas istampas e li ‘idia sas coscias e-i sas mudandas. E capitaiat puru chi calecuna non giughiat mudandas e, tando, su panorama s’irrichiat de calchi munimentu interessante.
Subra su cuadru, a tres metres dae terra, giraiant sos buratos. Si moviant in tundu, in lestresa, chi pariant pessighidos dae canes arrejolidos, cun unu manizu chi non s’assimizaiat a nudda a-i cussos chi faghiat su sedatu de mama mia, cando colaiat sa farina pro fàghere su pane pòddine. Mancari sedatada in mulinu, a sa farina, mama li daiat un’àtera passada, ca su pane *essiat pius bellu a fregura e pius bonu a sabore. Sos movimentos de sos sedatos s’assimizaiant, pius a prestu, a duas murròculas cadreddajòlas, de-i cussas a puntzu longu e barritortu, chi nois piseddos impitaimus pro giogare a isgràbbios, chi, daghi la piscaias, ti tronaiat sa manu che chi b’esseret passende unu ratacasu. Sos buratos fint duos, acopiados. Pariant duas cascias mannas a retàngulu, apicadas cun cannàos de ferru a sa bòvida. Pagu pagu istacados unu dae s’àteru, su tantu de b’istare una targa, ue b’aiat iscritu: Giannotti e Figli – Viterbo. Totu altziaiant sos ojos a lègere, ma chie aiat fatu iscolas bascias e non fit tantu lestru leggende e si si bistentaiat pagu pagu, trambuchende in sas sìllabas, a cando finiat de lègere, li ’eniat s’imbàddinu, ca deviat sighire cun sa conca su movimentu impressidu de ‘arveghe ‘addinosa chi faghiat sa targa, pius ispiciu de sa limba de tia Mariantonia Fonnesa.
Tiu Mateu Limbichicu si bi proaiat onzi ‘olta chi ‘eniat a marghinare su mesu istarellu sou e istaiat unu malafine de tempus nende Gian . . . Giann . . . chena mai resessire a arrivire a . . . Viterbo.
Una barantina de annos como, ammentende su mulinu, apo iscritu custa poesia chi at balanzadu unu prèmiu in unu cuncursu :
SU MULINU ABBANDONADU
Cantas cosas
mi ‘atides a s’ammentu.
muros, dae su tempus ratados!
E bois, lòrigas ruinzadas
E tue, ferrada de ventana,
chi, pro musca caddina,
inchietos caddos
e àinos archilados,
marra marra,
fortza ti proaian e balentia!
Sa dulche mùida ‘e sa mola,
chi calda sa farina cana
‘etaiat in sa ‘uca de linna,
imbellida de tela crua
che de zòvana istranza dulche cara.
Su giannile biancu de ‘oladia,
chi in s’impedradu antigu,
cunsumidu dae pes
de fitianas tribulias,
modde, a lenu a lenu si perdiat,
che tipidiu a bentu de arzola,
in sa cora, istraca ‘e trazar abba.
E tue, mola, a cantare sighias,
dae ciarras de comares cameddada,
chi a fiotu arrivian, cun tidiles
pistados dae gàrrigos pesudos
de milli ranos pròssimos de pane,
frutu de incunzas sueradas,
de timerosas dies de ‘iddia
e de dolentes fogos s’istremutu,
in còrvulas balladas,
dae istracos passos trazadas,
in tirighinos mudos,
iscurosos, allegros
de apagada cuntentesa.
Mulinu ‘etzu,
non fisti logu ebbia de fadiga
e suore, ma logu de pasu e de isetu,
ue pro buglia innotzente si riiat,
isetende s‘intinnu ‘e su mojolu,
chi de àteru trigu aiat bisonzu.
Como, nudda est restadu!
Meràculos at fatu s’era noa!
E-i s’umanidade tue tota canta
chena si penetire nd’at distrutu.