Archivio della categoria ‘Cultura e arte’
Scritto da carlo moretti
Capitolo 7
Alle origini del gallurese
Dove e quando di preciso insorsero i trattamenti rt > lt, rd > ld, rk > lk, rg > lg e come si estesero fino ad abbracciare tutto il settentrione della Sardegna? Questo discorso, come si vedrà appresso, investe in pieno il problema della formazione del dialetto gallurese.
La prima documentazione letteraria del gallurese è rappresentata dal corpus di poesie del religioso tempiese Gavino Pes, più noto col nome di Don Baígnu, la cui attività si dispiegò interamente all’interno del Settecento. 148
Orbene, per fonetica, morfologia, sintassi e lessico le composizioni del Pes non differiscono affatto dall’odierno gallurese comune che ha il suo centro di riferimento proprio in Tempio. Le uniche differenze sono date, a livello lessicale, da un buon numero di spagnolismi ormai parzialmente caduti in disuso.
Il gallurese del ’700 presenta dunque una veste assai simile a quello contemporaneo. Fra i suoi tratti fonetici più significativi si rileva proprio la costante risoluzione rk, rg > lk, lg; rt, rd > lt, ld; rp, rb > lp, lb. Esempi: palchí “perché”, impultanti “importante”; viltuosu “virtuoso”; immoltali “immortale”, taldá “tardare”, palditti “perderti”; impliá “emplear” (sp.), ecc 149.
Nel còrso moderno questi esiti non sono affatto sconosciuti (v. cap. 7). Non mancano casi di s > r come, ad es., altóre “astore” per astore (gall. altóri) oppure di r per l, come in partinaca “pastinaca” per pastinaca. Ma, contrariamente al gallurese, in cui il fenomeno del lambdacismo rappresenta la regola, nel còrso si tratta di esempi sporadici ben lontani, per quantità, dalla situazione dello stesso logudorese sett. e di ampie zone del logudorese comune che si spingono fino alla linea che unisce Bosa a Bonorva, Osidda e Budoni, centri lontani da cinquanta a oltre cento chilometri dall’area di irraggiamento del fenomeno.
Oltre a questo peculiare aspetto, vanno segnalati altri trattamenti che, pur mantenendo il gallurese nell’àmbito del còrso oltremontano, lo differenziano a tal punto da renderlo una varietà nettamente autonoma. È il caso, per es., della caduta della fricativa labiodentale sonora in posizione intervocalica (còrso avé, móve, primavéra, gréve; gall. aé, muí, grái).
Nel còrso odierno anche questo fenomeno non è sconosciuto, come documenta, ad es., la caduta di v- preceduto da sillaba atona; es.: lu ’ól’u “lo voglio”. Ma si tratta pur sempre di scostamenti rispetto alla regola generale che invece ne vuole il mantenimento.
Un altro tratto caratteristico del gallurese è rappresentato dall’assimilazione progressiva del nesso -rn-, tipica del sardo (còrso turná, gall. turrá); del trattamento kù- > k- che appare antico (còrso: questu/quistu, quessu, quici, quiɖɖu/quillu, quindeci vs. gall. chístu, chissu, chíci, chíɖɖu, chíndici); del perfetto in -ési, -ísi documentato già nel Cinquecento e oggi unica uscita del gallurese, mentre nel logudorese sett. è caduto in disuso di fronte alle più antiche uscite in –ei impostesi alle forme medievali in -ai.
Il lessico gallurese per circa il 18-20% è rappresentato da prestititi logudoresi acquisiti da un tempo imprecisabile.
Anche il còrso, però, una volta trapiantato nella parte settentrionale della Sardegna, produsse un influsso notevole.
Forme còrse come cascio “formaggio” sono attestate in logudorese, sia pure con diversa veste grafica (caxu), fin dal Settecento 150.
Già nel Settecento il gallurese era infarcito di spagnolismi e i prestiti catalani non erano inferiori per numero a quelli castigliani. Per gran parte di queste voci d’accatto va osservato, anzi, che il gallurese si mostra più conservativo del logudorese. Ora, si sa che l’influsso catalano nella Sardegna settentrionale cominciò ad arretrare fin dalla seconda metà del ’500 e che l’uso di questa lingua si protrasse fin verso la metà del Seicento ma quasi soltanto come codice linguistico delle più alte gerarchie ecclesiastiche 151. Quindi già nel primo Seicento il catalano doveva conoscere una fase di irreversibile regresso. Donde proviene, allora, la presenza di tantissime parole catalane al gallurese?
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Scritto da ztaramonte
Scrivo questo mio breve pezzo dietro richiesta di una persona amica.
In Sardegna c’è una attenzione vivissima e quasi morbosa per la civiltà nuragica. Questa attenzione deriva dal fatto che, almeno in una forma in buona parte inconsapevole, i Sardi sanno o “sentono” di avere a che fare col periodo più importante e più glorioso dell’intera storia della Sardegna. Per questo motivo di fondo tutti i Sardi sono istintivamente portati a simpatizzare con chi sostiene che anche i Nuragici avevano una loro “scrittura nuragica nazionale”.
Una ventina di anni fa nel nuraghe Tzricottu del Sinis è stata trovata una targhetta metallica che, in una delle sue facce, porta chiarissimi “disegni ornamentali”, simili ad arabeschi. Intervennero due amanti di cose sarde, insegnanti medi, i quali dichiararono al pubblico che quei disegni in realtà erano i segni di una “scrittura nuragica”, mai conosciuta e riconosciuta prima.
Intervenne subito un archeologo il quale dimostrò – in modo del tutto convincente – che quella targhetta risale non all’epoca nuragica, bensì a quella bizantina e faceva parte dell’armatura di un militare.
Ovviamente c’era stato dunque un grosso abbaglio da parte dei due insegnanti. Uno di questi – anche per tentare di stornarlo da sé – andò avanti con la sua tesi pubblicando anche un libro nel quale c’è pure il disegno di altre tre targhette simili alla prima, ma anche lievemente differenti. Senonché, a mio fermo giudizio, queste altre targhette non sono altro che veri e propri “falsi”. Esse infatti non fanno altro che seguire il disegno della prima, ma con lievi variazioni interne. E si tratta chiaramente di un “falso” fanciullesco, dato che presuppone che la seconda targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della prima, la terza targhetta contenga una iscrizione sovrapposta a quella della seconda e della prima, la quarta targhetta una iscrizione sovrapposta a quella della terza, della seconda e della prima. E tutto ciò presuppone un gioco di inserimenti di iscrizioni che non potrebbe trovare posto neppure nei giochi di in una rivista di enigmistica. Che queste ultime targhette siano altrettanti “falsi” è dimostrato pure dal fatto che esse non sono state mai mostrate ad alcuno.
Messisi sulla strada ormai aperta delle “falsificazioni”, alcuni individui hanno finito con l’avere anche fastidi giudiziari rispetto a ciottoli fluviali che sarebbero stati trovati sulla riva del Tirso e che presenterebbero segni di scrittura etrusca.
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Scritto da ange de clermont
Il pomeriggio venne insieme al conturbante archeologo Andrea Galanu nella caserma di Miramonti. L’archeologo dalla mappa segreta e dai molti sospetti si presentò ai militi come Lucifero davanti a San Michele Arcangelo, pronto alla battaglia, se doveva esserci battaglia.
Il brigadiere Carrigni, appena ferito da Cupido per la bella Anghela Nigoleddu, non aveva nessuna voglia di dar retta ai sospetti delle comari del borgo, rapide nella diffusione delle notizie e dei sospetti, ma pronte a professare che la loro anima era da considerarsi libera dal prendere le chiacchiere come la verità definitiva sui fatti. Tra uomini del resto, più che tra donne, quelle chiacchiere diventavano indizi gravi, tra i pastori dalla mente piuttosto statica, meno grave per i contadini più ingegnosi a causa del dover combattere ogni giorno la battaglia della vita come prestatori d’opera verso possidenti che univano la sobrietà del remunerare alle pretese dell’avere. Inoltre gli uomini più che con le chiacchiere con sguardi, con gesti,con mezze parole dicevano e non dicevano, quasi facenti parte di una commedia di mimi.
In Piatta, nella bottega del fabbro, c’era poco da aprir bocca tra quei colpi di martello sull’incudine, presso la bottega del falegname, dato il carattere dell’uomo, segaligno e calcolatore, era come recarsi al cimitero nei giorni dei funerali, silenzio assoluto, qualche parola in più presso le bottegaie e nei crocchi presso la casa comunale-scuola dove a seconda del servizio ricevuto, andavano e tornavano imprecazioni contro il sindaco e i civici consiglieri. Fatto sta che i sospetti nei confronti di Galanu vagavano nell’aria come anime in pena, ma alla resa dei conti l’uomo era consapevole delle sue convinzioni e se un omicidio non l’aveva compiuto non doveva di certo far intendere che l’avesse portato a termine e se doveva nascondere i suoi movimenti nel territorio per non incorrere in sospetti, doveva mentire con determinazione.
Il sospettato bussò alla porta della caserma e il piantone gli aprì la porta accompagnandolo presso l’ufficio del brigadiere.
-Buongiorno, signor Galanu, si accomodi!-
L’uomo rispose al saluto del brigadiere ricambiandolo e fissando con quei suoi occhi penetranti al punto che il milite ne fu conquistato.
-Signor Galanu, riprese, lei sa perché l’ho convocato?-
-Ma certo, rispose l’uomo, so bene che è vostro dovere indagare sull’assassinio del collega Pedde, che per la verità non mi era molto simpatico, ma da questo ad eliminarlo, c’è una bella differenza. D’altra parte ho i miei alibi. Io il giorno stavo facendo degli assaggi sul Nuraghe Aspru e sono stato visto sia da Mudulesu sia dalla moglie e forse dai servi. -
-Va bene, ma dovremmo verificare gli orari. Lei è uscito presto da Miramonti, a che ora è arrivato a casa del Mudulesu?-
-L’orologio del taschino va avanti, ma io lo guardo poco e sinceramente non saprei indicargli l’ora esatta e poi io spesso mi fermo davanti ad un masso, ai resti di un nuraghe alla ricerca di reperti antichi, per cui poco mi curo del tempo che passa. A volte m’incanto guardando i picchi dei costoni oppure il volo dei falchetti o gli stapiombi dei fiumi e il tempo vola, ma io resto fermo. Sono un ricercatore serio e quando mi concentro sono assente da quanto mi circonda. Mia moglie mi dice che vivo nelle nuvole, ma io sono ben piantato per terra, solo che quando indago su una cosa mi assento da ciò che mi circonda. Del resto era così anche Giuanne Ispanu il mio maestro. Il volgo miramontano spesso non mi capisce, ma a me poco interessa. Vede brigadiere io sono come una miniera, per scavarla ci vogliono anni e bisogna andare a fondo. La storia messa in giro sul delitto di Antonio Pedde, che Dio l’abbia in gloria, non scalfisce minimamente la mia onestà. Sono tutto il contrario di tiu Nanneddu: lui fa le scoperte sotto gli occhi della gente, ci ride, a volte sbraita, io sono un minatore, lavoro sotto terra, ci metto anni prima di convincermi di una cosa e quando ho scoperto i segreti degli antichi non vado a spifferarli ai quanttro venti come il mio amico scrivano che ha bisogno di raccontare, di pubblicizzare e di essere incensato, io voglio scoprire gli antichi e basta e tenermi i segreti per me.-
-Quindi anche la mappa segreta di Giuanne Ispanu?-
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Scritto da ztaramonte
Nei giorni scorsi, nel sito web della giornalista dott.a Rina Brundu, ogliastrina ma residente in Irlanda, il signor Franco Pilloni ha scritto testualmente di me: «Fra i tanti meriti del prof. Pittau non posso tacere che anch’egli, come i vecchi archeologi che proclamarono nuraghe=fortezza, si stia arroccando sulle proprie posizioni, senza dare spazi e sufficiente attenzione al nuovo che sta venendo fuori specialmente in fatto di scrittura in Sardegna risalente al Bronzo Finale e al Primo Ferro, in pratica dall’VIII secolo a.C. a risalire sino al XII e forse anche oltre. Mi pare che, invece che usare la propria scienza-esperienza per aiutare ad interpretare quei reperti sicuramente scritti venuti fuori dal terreno degli scavi, usi e approfitti della sua autorità per negare ciò che anche le persone non addentro all’epigrafia vedono e constatano: certi cocci o reperti di vario genere sono proprio “scritti”.- Saluti e auguri al prof. Pittau con cui, pur non conoscendoci di persona, ho spesso incrociato opinioni e che rispetto, anche quando polemizziamo».
Se io rispondo a questo intervento dell’amico Pilloni non lo faccio tanto per replicare a un appunto non fondato che egli mi ha mosso, quanto perché la questione nel presente sta interessando parecchio i Sardi: «È mai esistita una scrittura propriamente ed esclusivamente nuragica oppure non è mai esistita»?
Ebbene, sull’argomento io non mi sono “arroccato dietro la mia autorità”, ma al contrario ho fatto preciso riferimento a una mia effettiva “scienza-esperienza”. Io della lingua dei Nuragici, cioè dei suoi relitti, mi sono interessato fin dagli inizi della mia carriera di linguista e precisamente da più di 6O anni. E questo mio così lungo interesse ha portato anche alla pubblicazione di un’intera mia ampia opera intitolata «La Lingua Sardiana o dei Protosardi» (Cagliari 2001, Gasperini edit.), nella quale ho studiato circa 350 vocaboli di quasi certa matrice nuragica. Di recente poi ho pubblicato un’altra ampia opera intitolata «I toponimi della Sardegna – Significato e origine, 2 Sardegna centrale (Sassari 2011, Editrice Democratica Sarda, EDES), nella quale ho studiato circa 2.300 toponimi pur’essi di quasi certa matrice nuragica. Due anni prima, nell’altra mia opera «Il Sardus Pater e i Guerrieri di Monte Prama» (Sassari I ediz. 2008, II ediz. 2009, EDES), avevo pubblicato una Appendice intitolata «I Sardi Nuragici e la scrittura», nella quale mi lusingo di avere dimostrato che i Sardi Nuragici o Protosardi hanno di certo adoperato la scrittura, ma non una scrittura propria, cioè “nazionale” ed esclusivamente “nuragica”, bensì, col passare del tempo, la “scrittura fenicia”, quella “greca” e quella “latina”.
A chi da una decina d’anni sta invece affermando di avere individuato una “scrittura nuragica”, io ho opposto parecchie volte queste obiezioni, alle quali non è stata mai data una risposta adeguata:
1) Molte di quelle che sembrano “lettere di un alfabeto nuragico” non sono altro che segni ornamentali (come quelli della placchetta di Tzricottu).
2) Altri sono semplici disegni oppure simboli e nient’affatto “lettere di un alfabeto”.
3) Non è stata mai trovata e mostrata una sola “sequenza di lettere della scrittura nuragica”; tanto meno è stata trascritta nelle lettere dell’”alfabetico fonetico internazionale”; tanto meno ne è stata data la “traduzione in italiano”; tanto meno ne è stata mostrata una qualsiasi connessione coi relitti della lingua nuragica che già possediamo e conosciamo.
4) Per spiegare quei segni o disegni o simboli, supposti lettere di un alfabeto, sono stati chiamati in causa tutti gli alfabeti del mondo antico, sumerico, aramaico, elamitico, paleocananeo, ugaritico, minoico, ecc. Ma che c’entrano tutti questi alfabeti? Io e tutti i Sardi vogliamo vedere l’”alfabeto nuragico”, se esiste, e nient’affatto quello sumerico o quello minoico, ecc.!
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Scritto da carlo moretti
Halloween, derivato dall’anglosassone “All Hallows Eve”, che significa appunto “Vigilia della festa di tutti i Santi”, è il nome di una festa popolare di origine pre-cristiana, tipica dei paesi statunitensi e canadesi celebrata il 31 ottobre di ogni anno.
In ogni caso le sue origini sono antichissime e affondano le radici nelle tradizioni europee. Risale a quando le antiche popolazioni tribali, dividevano l’anno in due parti, in base alla transumanza del bestiame che solitamente avveniva tra ottobre e novembre, mentre la terra si preparava alla stagione invernale e si rendeva necessario ricoverare il bestiame il luoghi chiusi, per garantirgli la sopravvivenza durante il rigore dell’inverno.
In Europa la ricorrenza si diffuse con i Celti. Questo popolo festeggiava la fine dell’estate con Samhain, il loro capodanno. In gaelico Samhain significa infatti “fine dell’estate” (Sam, estate, e Fuin[senza fonte]). A sera tutti i focolari venivano spenti e riaccesi dal “sacro falò” curato dai druidi a Tlachtga, vicino alla reale Collina di Tara.
Nella dimensione circolare del tempo, caratteristica della cultura celtica, Samhain si trovava in un punto fuori dalla dimensione temporale che non apparteneva né all’anno vecchio e neppure al nuovo; in quel momento il velo che divideva dalla terra dei morti (Tir na n’Og) si assottigliava ed i vivi potevano accedervi.
I Celti non temevano i propri morti e lasciavano per loro del cibo sulla tavola in segno di accoglienza per quanti facessero visita ai vivi. Da qui l’usanza del trick-or-treating.
Oltre a non temere gli spiriti dei defunti, i Celti non credevano nei demoni quanto piuttosto nelle fate e negli elfi, entrambe creature considerate però pericolose: le prime per un supposto risentimento verso gli esseri umani; i secondi per le estreme differenze che intercorrevano appunto rispetto all’uomo. Secondo la leggenda, nella notte di Samhain questi esseri erano soliti fare scherzi anche pericolosi agli uomini e questo ha portato alla nascita e al perpetuarsi di molte altre storie terrificanti.
Si ricollega forse a questo la tradizione odierna e più recente per cui i bambini, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano alla porta urlando con tono minaccioso: “Dolcetto o scherzetto?” (“Trick or treat” nella versione inglese). Per allontanare la sfortuna, inoltre, è necessario bussare a 13 porte diverse.
Il cristianesimo, come già la dominazione romana, tentò di incorporare le vecchie festività pagane dando loro una connotazione compatibile con il suo messaggio.
Papa Bonifacio IV istituì la festa di tutti i santi; nella festa, istituita il 13 maggio 610 e celebrata ogni anno in quello stesso giorno, venivano onorati i cristiani uccisi in nome della fede. Per oltre due secoli le due festività procedettero affiancate, sino a che papa Gregorio III (731-741) ne fece coincidere le date. Secondo altre fonti, fu invece Sant’Odilone di Cluny che nel 1048 decise di spostare la celebrazione cattolica all’inizio di novembre al fine di detronizzare il culto di Samhain. Quell’anno l’Ognissanti fu spostata dal 13 maggio al 1 novembre per dare ai cristiani l’opportunità di ricordare tutti i santi e, il giorno dopo, tutti i cristiani defunti (Commemorazione dei Defunti). Per questo nei paesi di lingua inglese la festa divenne Hallowmas, che significa “messa in onore dei santi”; la vigilia divenne All Hallows Eve, che si trasformò nel nome attuale, Halloween.
Si ebbe, inoltre, una recrudescenza di proibizionismo dal 1630 al 1640, quando la chiesa cattolica fece in modo di far sopprimere ogni festa di tipo pagano legata a questa ricorrenza.
Come è possibile leggere quindi, non sono gli americani ad avere diritti sull’invenzione di questa ricorrenza, anche se negli Stati Uniti le diverse tradizioni legate alla festa d’Ognissanti confluirono, fino ad arrivare alle consuete moderne celebrazioni.
Inizialmente era una festa regionale, le cui caratteristiche erano legate alle culture degli immigrati ed alla fede religiosa personale. In epoca vittoriana furono gli strati più elevati della società ad impadronirsi della festa: era di moda, negli Stati Uniti, organizzare feste, soprattutto a scopo benefico, la notte del 31 ottobre. Era necessario eliminare i collegamenti con la morte ed amplificare i giochi e la parte scherzosa della festa.
Già nel 1910 le fabbriche statunitensi producevano tutta una serie di prodotti legati unicamente a questa festa. Prende in questo periodo la connotazione di “notte degli scherzi” o “notte del diavolo”, durante la quale ci si abbandonava all’anarchia ed erano ricorrenti gli atti di vandalismo, fino al punto da ritenere opportuno l’annullamento della festività.
Con la seconda guerra mondiale si fece leva sul patriottismo americano e la festa servì a tenere alto il morale delle truppe ed il vandalismo degli scherzi di peggiore specie venne eliminato.
Terminato il conflitto mondiale i bambini si impossessarono della festa, anche grazie alle aziende, che dedicarono a loro tutta una serie di costumi, dolci e gadget trasformando la festa in un affare commerciale. Alimentarono l’affare con storie di lamette nei dolci e avvelenamenti di caramelle fatte in casa, inducendo gli americani a volgersi verso dolci preconfezionati.
Un grosso affare commerciale, quindi la festa di Halloween, niente a che vedere con “s’immurti immurti” o “su mortu mortu” e “su ‘ene ‘e sas animas” nel nuorese, “is Animeddas”, “is Panixeddas” nel sud dell’isola, “su Prugadòriu” in Oliastra e tanti altri.
Anche in Sardegna come nei paesi anglosassoni, sono i bambini che vanno di porta in porta a chiedere qualche piccolo dono per piccole anime. E’ bello sentire il vociare dei bambini festanti per le strade del paese, anche se ai giorni d’oggi il numero è molto ridotto rispetto a prima.
Oggi i nostri bambini , rientrano a casa con caramelle cioccolattini, lecca lecca e merendine (la globalizzazione), una volta era più comune ricevere dolcini tipici del periodo, melagrane, castagne, mandorle, noci, fichi secchi e uva passa.
Naturalmente non possiamo evitare di riunire il tradizionale “immurti immurti”, con la notte tra il 1 e il 2 novembre dove e d’uso imbandire la tavola con il cibo per offrire un pasto ai morti che, secondo la tradizione, durante la notte scenderebbero a far visita ai vivi. Sulla tavola non viene lasciato nè il coltello nè il vino, perchè il defunto potrebbe, a seconda del suo stato d’animo, usare il coltello come arma o il vino per ubriacarsi e combinare chissà cosa, mentre vengono lasciati aperti i cassetti o altri contenitori perchè l’estinto possa prendere ciò che vuole. Nel caso la tradizione non venga rispettata, le anime non trovando il pasto pronto potrebbero prendersela a male con i propri cari.
La Sardegna è terra fortemente intrisa di racconti e leggende, miti e tradizioni che, nonostante il tempo passi, continuano ad essere fortemente presenti…….
Scritto da ztaramonte
La splendida cornice del Chiostro San Francesco, gremita di trecento persone, ha degnamente sostituito il Teatro “Oriana Fallaci”, indisponibile a causa di lavori di adeguamento, nella serata finale della 53° edizione del “Premio Ozieri di Letteratura Sarda”. A giudicare dagli attestati di stima ricevuti e dall’affetto che ha circondato tutta la manifestazione, si ricava la cifra del prestigio e delle attese che la cinquantaseienne creatura di Tonino Ledda ha saputo conquistarsi in ben oltre mezzo secolo di duro e serio operare. Tangibile e sincera la soddisfazione degli autori e del pubblico presente. Come ormai succede da qualche anno, peraltro, l’attesa era forte. I dubbi e le incertezze, pure. Ma, come qualcuno ha opportunamente sottolineato, riuscire a navigare così a lungo in acque quasi mai serene, per il Premio è sintomo di “sana e robusta costituzione fisica” e, in definitiva, di una salute di ferro. E poi, come tutti gli “arzilli vecchietti”, ci tiene anche a non farsi scontare… anni. Qui, proprio la matematica viene subito incontro: se la prima edizione si è svolta nel 1956, quest’anno si sarebbe dovuta celebrare la 57^. Non è così. Ma solo perché – nei fatti – alcune edizioni hanno avuto una gestazione biennale. A significare che talora la manifestazione ha dovuto cedere il passo a problemi (di solito economici), ma che ogni volta è riuscita a riprendere volitivamente il suo cammino. Tanto da conquistarsi il primo posto, indiscusso, nell’orizzonte culturale isolano. Gli effetti d’immagine durano tuttora e ricadono ampiamente sulla città e sul territorio.
Fortissima la stima e la considerazione che Ozieri riesce a calamitare dappertutto, in campo letterario e in tutte le branche ad esso legate. Perché anche il più acceso avversario non può fare a meno di riconoscere la primogenitura assoluta di un progetto culturale, che solo oggi è passato nella sua pienezza e annovera centinaia di imitatori ed epigoni. Se un merito va riconosciuto al Premio ozierese, infatti, è proprio quello di essere una grande manifestazione di democrazia totalmente apolitica e apartitica: già dalle prime edizioni la partecipazione venne aperta a tutte le varietà di lingua sarda dell’Isola. Da quelle principali, fino alle più remote sfumature, comprese quelle che allora si definivano isole alloglotte (Alghero col catalano e Carloforte col genovese di Pegli, altrimenti detto tabarchino), e che oggi vengono definite, dagli esperti, eteroglossie interne. I fatti, le proposte e anche le leggi più recenti, sia pure tardivamente, hanno dovuto prendere atto che l’unica linea valida, tracciata per la tutela della lingua e della cultura sarda, è quella portata avanti per lunghi decenni, in solitudine, dall’”Ozieri”. Ed oggi che il principio è passato “alla grande” e c’è una forte presa di coscienza generale sulla necessità di riscoprire le nostre radici per contrastare l’omologazione, è fin troppo facile navigare sulla scia. E proprio su questi temi si è indirizzata la linea del Premio in tempi di dibattito fin troppo acceso e guerra tra istituzioni nello spinoso settore della salvaguardia e tutela della “limba”, che ha acceso querelles ancora incandescenti e disorientato la pubblica opinione. “Il momento è importante e in qualche misura strategico: come Associazione organizzatrice, sentiamo l’esigenza di essere ancora una volta protagonisti e “padri nobili” di un qualcosa che comunque ha lasciato tracce profonde nel mondo culturale sardo. Un obbligo morale che ricade in capo a un’iniziativa che vanta una lunghissima militanza, e si trova invece, oggi, nella condizione di doversi districare in un groviglio di posizioni antitetiche e spesso conflittuali che non contribuiscono certo alla chiarezza.
Commozione ed applausi sia per gli autori premiati che per le personalità che hanno ottenuto riconoscimenti che vanno ad arricchire il nutrito albo d’oro della manifestazione. Su tutti, l’emozione del segretario generale della Federazione Nazionale della Stampa Italiana Franco Siddi, cui è stato consegnato dal Sindaco di Ozieri Leonardo Ladu e dall’Assesore alla Cultura Giuseppina Sanna il “Trofeo Città di Ozieri”. Siddi ha calcato l’accento sul momento attuale della Sardegna in uno schietto e purissimo sardo campidanese compreso da tutto il pubblico presente. Di forte impatto anche gli interventi dell’Assessore Regionale alla Cultura Sergio Milia, che ha tracciato le linee dei programmi varati dal suo assessorato, in cui il Premio Ozieri ha avuto ed avrà ulteriore ruolo in virtù dei suoi trascorsi e dell’esperienza organizzativa dimostrata, in specie nella gestione delle due ultime edizioni della Festa dei sardi: “Sa Die de sa Sardigna”.
In sintonia l’intervento della Presidente della Provincia Alessandra Giudici. Momenti di pathos assoluto nella esibizione del coro “Cuncordu de Santu Lussurgiu”, cui è stato assegnato l’ambitissimo Trofeo “Provincia di Sassari” Ma i momenti d’attenzione e di emozione non sono mai mancati durante la recita dei lavori premiati nelle tre sezioni. Anche in virtù della folta schiera di giovani collocatisi nelle prime piazze: speranza, ma anche certezza per il futuro. In barba alle cassandre di turno.
Scritto da ange de clermont
Brigadiere e carabiniere discesero i numerosi gradini dell’ingresso della caserma, svoltarono in via Pala de Carru, passarono per lo Stradone, risalendo la piazzetta della parrocchiale, e svoltarono nella Piazza principale del paese, detta appunto Piatta.
Le bottegaie avevano aperto i loro negozi, mentre tanto il fabbro col suo martellare sull’incudine quanto il falegname con la sega avevano dato inizio al concerto della giornata. I militari se la presero con calma come di consueto risalendo sa Piatta ed ecco che, sorpassata la bottega del fabbro, si affacciò alla porta Anghela Nigoleddu. Il brigadiere la squadrò rapidamente e, visto che la ragazza lo fissava, ebbe l’ardire di farle l’occhiolino. Anghela arrossì e rientrò dentro casa, riflettendo sulla sfacciataggine del brigadiere e da quel momento cominciò a chiedersi che cosa frullasse per la testa al capo della stazione di Miramonti.
I due militari risalendo per s’Ulumu, svoltarono a destra, discesero i gradini de s’Arcu, rivedendo affaccendata l’anziana zitella che qualche giorno prima avevano visitato, la salutarono, discesero i gradini della stradetta che declinava verso la piazzetta della parrocchiale e senza ripassare nella Piatta rientrarono in caserma.
Il brigadiere Carrigni, sfregandosi le mani per il messaggio inviato alla bella ragazza entrò nel suo ufficio, si sedette e poco dopo si presentò in caserma Bustianu Pittarru, noto Fizedomus. L’uomo, tutto nervi e ossa, salutò e si sedette davanti all’ufficiale dell’Arma col viso imbronciato.- Egregio Signor Bustianu Pittarru la vedo imbronciato, ma non vi è ragione perché lo sia, l’ho convocato semplicemente per sentire la sua opinione sulla morte dell’archeologo Pedde.-
-Una persona per bene e per di più amico mio, per la cui morte mi sono molto addolorato e non riesco a sopportare che se ne sia andato per sempre. Se mi avesse chiesto una mano come era solito fare non solo lui, ma anche gli altri, in mia compagnia non l’avrebbero di certo ammazzato.-
-Chi pensa che sia stato? Aveva dei nemici?-
-Ma, secondo me, gli unici nemici erano gli altri archeologi che non potevano sopportare che fosse stato molto amico della buonanima di Giuanne Ispanu e soprattutto del vicario presso il quale godeva di grande stima. Poi, sa com’è, a volte certi amici pastori, magari anche compari, per antichi torti, gli hanno servito i maccheroni freddi.-
-Che cosa vuol dire che possono essere stati anche amici suoi di Sassu Altu e di Sassu Giosso?-
-Brigadie’, anima mia libera, ma sa com’è, di domus de Janas ce ne sono tante e dentro terreni di diversi padroni, per cui… io non lo so, ma indagherei anche su quelli, oltre che sugli archeologi, tutti amici miei, ma sa com’è, a volte vogliono insegnare a me dove e che cosa siano le domus de Janas.-
-So che non trattava bene con Andria Galanu per via della famosa carta o mappa di tutti questi monumenti antichi.-
-Non l’ho detto io il nome, ma l’ha detto lei. Veda d’indagare. Io e la mia famiglia siamo molto rattristati e solo dispiaciuti che non si fosse lasciato accompagnare da qualcuno che avrebbe portuto difenderlo al momento opportuno.-
-Ho capito, secondo lei, abbiamo due piste di ricerca: pastori anche compari e archeologi.-
-Io, qui lo dico e qui lo nego, ma al suo posto non avrei lasciato perdere queste piste. In quanto a me, ho passato tutta la giornata della sua morte con uno dei miei fratelli a Sassu Giosso, visto che abbiamo dato una sarchiatina al frumento più tardivo de sa Tanca Manna.-
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