Scritto da carlo moretti
Due amiche che chiameremo Luisa e Valeria, rimaste vedove giovanissime, e con un figlio ciascuna, continuarono a volersi bene per molto tempo. Si può dire anzi che quella disgrazia le legasse, se possibile, più forte.
Il figlio di Luisa si chiamava Pietro, il figlio di Valeria, Marco.
Avvenne che, quando essi giunsero in età da prender moglie, le loro madri si scambiassero come legittimi mariti i propri figli. E così esse divennero ciascuna suocera e nel medesimo tempo nuora l’una dell’altra.
Il matrimonio di Pietro e Valeria rimase sterile, mentre Luisa e Marco ebbero un figlio che, dalla nonna, prese il nome di Valerio. Ma la madre di Valerio, Luisa, morì dopo aver dato alla luce il bambino.
Un giorno Valeria cullava l’orfano, quando venne a visitarla una sua cara comare, di nome Elena, la quale da molto tempo si era trasferita in un paese lontano e ora ritornava a rivedere i suoi luoghi.
Elena che non sa nulla della vicenda si meraviglia che quella sua comare vedova culli con tanto affetto un bambino…
- Bonas dies comare!
e comente sas dies bos passades?
Bos cherzo preguntare
de chie est su pizzinnu chi ninnades.
Ca deo no l’ischía,
pro cussu preguntare bos chería -.
- Comare mia, oddeu!
De ite cosa m’hazis preguntadu!
Fizu est de fizu meu,
frad’a maridu meu e m’est connadu;
e istimadu forte,
m’est nebode e connadu fin’a morte -.
Dezzìdilu in cust’ora:
battor coros chi Deus hat unidu:
fit a sa ninnadora
fizu’e fizu, a frade a su maridu:
e cun s’amore insoro,
fin chimbe e cumparian unu coro…
- Buongiorno, comare! Come avete trascorso tutto questo tempo? Mi permetto di domandarvi di chi è il bambino che ninnate. Perché a me, riesce cosa nuova, perciò ve ne voglio interrogare.
- Comare mia, o Dio! Che domanda m’avete fatto! È figlio di mio figlio, fratello di mio marito e mi è cognato; e, fortemente amato, mi è nipote e cognato sino alla morte.
Spiegalo sul momento: quattro cuori che Dio ha unito: (il bambino) era figlio del figlio, e fratello del marito (dell’interrogata): e con il loro amore, erano cinque e sembravano un cuore solo…
Scritto da carlo moretti
BREVE NOTA BIOGRAFICA
Salvatore Cambosu nasce a Orotelli il 5 gennaio 1895 e cresce sotto la guida del padre Gavino (zio da parte materna della Deledda) e della madre Grazia Nieddu accanto ai suoi numerosi fratelli e sorelle – Gavino, Battistina, Nicolina, Sebastiano, Andrea, Antonietta e Grazia.
Si avvia alla carriera di insegnante nelle Elementari di Orotelli e di altri villaggi della provincia di Nuoro e, dopo una parentesi politica (fu amministratore dal 1923 al 1926 del comune di Orotelli dove realizzò diverse opere pubbliche fra cui la pavimentazione a selciato di tutte le strade), si trasferisce a Cagliari dove insegna in vari istituti.
Intraprende nel contempo l’attività pubblicistica con articoli, racconti e novelle che appaiono su Il Messaggero, Il Corriere d’Italia, Il Popolo Romano e sulla rivista Noi e il Mondo e sin da quei primi articoli si manifesta l’interesse dello scrittore per i problemi dell’Isola (specie quelli sull’identità dei Sardi) che costituiranno la materia delle sue importanti collaborazioni future.
DAL VECCHIO AL NUOVO TESTAMENTO
Tratto da Miele Amaro di Salvatore Cambosu
Era solito dire Stefano Virde, il quale si atteneva per lo più alle favole antiche, che, di un intero continente caduto in disgrazia, Dio salvò unicamente quest’isola perché era abitata da una gente laboriosa e di semplici costumi.
Stefano Virde amava troppo la sua terra, l’amava ciecamente: ne nascondeva i difetti e ne ingrandiva i pregi: tanto che non permetteva a nessuno, neppure ai suoi figli (che erano andati raminghi in cerca di lavoro, nei continenti estraeuropei), e neppure ai suoi nipoti (che avevano passato il mare per fare le guerre): non permetteva nemmeno a loro di far dell’ironia sul conto del Sardo che ha, fra i suoi vezzi principali, anche quello d’appartarsi e di mettersi a cantare nelle solitudini, come uno che pianga di nascosto.
Molti secoli prima che Stefano Virde nascesse, un terribile vescovo, Lucifero di Cagliari, era arrivato ad affermare che il pontefice di Roma era incorso in errore, reintegrando nella loro dignità i pastori d’anime che erano ritornati all’ovile, già fautori dell’eresia d’Ario, al fianco dell’imperatore Costanzo, contro Atanasio:1 errore tanto grave, a suo parere, che anche come reduce dall’esilio (che aveva scontato nella Tebaide con dignità ed estremo coraggio e aperto vilipendio di Costanzo che glie lo aveva inflitto) si sentiva autorizzato a mettersi in rotta con la Curia romana, e a proclamare la Sardegna immune da lue eretica, e perciò la sola sede che fosse rimasta degna di Cristo. Il che faceva dire con sarcasmo a San Gerolamo: il Figlio di Dio non essere disceso ob tantum Sardorum mastrucam.
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