Scritto da ange de clermont
Nel giorno santo della Vergine del Carmelo ha detto addio ai pascoli di Sassu Altu, Melchiorre Soro, pastore dall’infanzia e legato alle praterie del suo gregge. Da bambino, seguendo il padre Pera Soro da Ollollai, si era innamorato dello scampanellio del suo gregge, del latte appena munto delle sue pecore, dei cani pastori che facevano buona guardia e non lasciava mai i suoi pascoli. Molti dei suoi compagni avevano disertato il mestiere antico quanto l’uomo, per diventare carabinieri, poliziotti, guardie di finanza oppure erano emigrati in Belgio, in Australia, ma lui, Melchiorre Soro figlio di Pera, era rimasto accanto al vecchio padre e con lui aveva condiviso il casolare di campagna con l’industriosità legata alla produttività del gregge di pecore, all’allevamento delle agnelle, alla conduzione dei maialini ruspanti, all’allevamento delle scrofe per le salsicce e per il lardo.
Di notte, quando qualche volta perdeva il sonno, si dilettava a guardare i pallidi raggi della luna e i messaggi che gli mandavano le stelle, mentre ascoltava il canto monotono dell’assiolo (sa tonca), il gracidare delle raganelle degli abbeveratori, il vociare dei cani d’altri pastori, quando un passeggero notturno si avventurava per quelle plaghe. Non invidiava il fratello studente che nei brevi periodi di soggiorno si dava a comporre quello che Melchiorre pensava e che teneva nel cuore. Per lui, le raffinate poesie de Giuanninu, i versi paterni, erano come denudare l’anima e quasi ne soffriva che qualcuno di famiglia gli rubasse tanta intimità. Un giorno però anche lui aveva incontrato Giusta, una ridente ragazza del paese, se n’era innamorato e l’aveva chiesta in sposa. Giusta aveva accettato l’invito e dal loro amore sono sbocciati due fiori: due bei ragazzi di cui il padre era orgoglioso e lo fu per una ventina d’anni, quando in una malaugurata notte, in un incidente d’auto, aveva perso un figlio. Gli s’era spezzato il cuore e quasi si era incurvato nell’incedere. Sembrava che il Cielo l’avese tradito, ciononostante aveva continuato la sua vita di pastore, non più dietro il gregge, ma nelle sue tanche. Non è trascorso molto tempo dalla morte del figlio e un altro incidente, quasi voluto dal destino, lo ha catapultato dalla macchina. L’anziano pastore osò sperare nell’insperabile e pur giacendo nel letto scomodo di un ospedale sperava ancora in un rientro nelle sue tanche tra il suo bestiame. Erano le 14,00 del giorno del Carmelo di quest’anno e sarebbe stato assente alla Messa che le pie obriere fanno celebrare nella seicentesca chiesa del Carmine, in Chiaramonti, mormorò al fratello e alla moglie: “Andate, me la caverò ancora!” e li congedò. Mezz’ora dopo, vide uno splendore speciale e udì una musica tanto simile a quella che per tutta la vita aveva ascoltato all’imbrunire nelle sue tanche. Le comparve rivestita d’un manto dorato, con un bambino in braccio, una speldente signora che le disse, “Melchiorre, ti porto con me, pascolerai con gli angeli del cielo nelle praterie di stelle!!” Melchiorre capì subito e annuì sorridente. La Vergine del Carmine era venuta a prendersi un figlio devoto dall’anima ripiena di stupore come quella di un bambino. Alle 14 e 30 giacque esanime.
Oggi, alcuni giorni dopo la sua scomparsa, il popolo chiaramontese, dall’ombra dei pini presso il Campostanto fino alla gremita chiesa del Carmine, ha salutato Melchiorre, anzi la sua salma, perché la sua anima si è unita a quella di suo padre Pera e di suo figlio, per pascere le stelle nell’ampio firmamento che sovrasta nelle notti senza luna Sassu Altu dove le sue pecore piangono belando e scampanellando il più amato dei pastori, di buona discendenza di Ollollai!
Sia onore a tutti gli antichi pastori che mirano il firmamento, neniando ottave per Nostra Signora, che li invita a pascere le stelle. Sia lieve per Giusta e per il figlio, per l’amico Giovanni e per tutti i congiunti, questo momento d’ombra. Melchiorre nei pascoli di stelle sorride lieto da lassù.
Scritto da angelino tedde
L’anima di Chiaramonti l’abbiamo lasciata sulla meticcia torre parrocchiale di San Matteo al Monte, a ricordare la sua nascita, la sua infanzia e la sua adolescenza. La madre, prima di scomparire, l’aveva abbandonata lì, tra i costruttori del castello e lei aveva trascorso la sua adolescenza in mezzo a quel via vai di soldati, carpentieri, ferraioli, carriaggi, sassi piatti, conci rossastri e marroncini di trachite. Di tanto in tanto si presentavano i padroni genovesi dai vestiti sgargianti ad impartire ordini fino al termine della costruzione. Lei si rallegrava e cresceva man mano che i lavori venivano ultimati.
La vista, dalla torre, era superba, il paesaggio incantevole. I boschi si succedevano ai boschi e gli animali selvatici scorrazzavano per tutto il territorio. A sud ovest si snodava in forma ellittica una vasta collina le cui pendici degradanti erano boscosissime, a ovest, dove in lontananza spiccava orgoglioso il castello degli Spinola. Vicino dirimpettaio, quasi tondeggiante, stava un altro colle, separato da un immenso vallone, dal castello dove lei dimorava. Più in là un lungo costone, detto dell’Anglona, e poi altre valli e monti. Ad est nell’azzurro sfumava la cima del Limbara da cui pareva nascere la Gallura che comprendeva solo in parte le proprietà dei signori del castello, i Doria, così aveva sentito dire e così ricordava. Quanto si era divertita a curiosare negli alloggiamenti, nelle armerie, specie nelle stanze delle corazze. Tanti abitatori dei villaggi a valle man mano andavano accostandosi alla Rocca quasi ad averne protezione e a trovarvi attività artigianale o ad arruolarsi per la custodia e la manutenzione delle abitazioni dei castellani. Devotamente aveva visitato la cappella di San Matteo, protettore dei Doria a Genova e qui nel castello, a cui era stato dato il nome dei Claramonte, quasi un omaggio per l’apparentamento tra le due famiglie. Questi ricordi tuttavia la spingevano al pianto e alla nostalgia.
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Scritto da angelino tedde
Tante volte mi sono chiesto se per caso anche i paesi e le città abbiano un’anima, magari di altra natura rispetto a quella degli uomini e delle donne, (un tempo considerate senz’anima, adesso invece pare che esse abbiano un’anima più vasta e più complessa di quella degli uomini che a quanto sembra pare abbiano un’anima bambina). Che, almeno il mio paese, Chiaramonti, abbia un’anima me ne sono accorto fin da bambino, da quando ho cominciato a scorrazzare in via Garibaldi prima, poi in Caminu ‘e Litu, successivamente nelle inerpicate strade de sa Niera, in Codinarasa e, infine, discesa Codinarasa, in Matta ‘e Suelzu, a Prammas, e più in là in Pianu ‘e Cabras. Quest’anima, impalpabile,estesa e luminosa, ma presente, l’avvertivo come una venticello caldo tutte le volte che scendevo a Bidda Noa, nella vigna ereditata da mia bisnonna Filomena Malta e da mio padre e da mio zio, ceduta, la parte nostra, a tiu Chicu Cossiga, imparentato anche lui con la mia trisavola Domenica Cossiga.
L’anima di Chiaramonti ha il profumo del lentisco e del cisto, ma nelle tanche d’asfodelo si avverte anche un non troppo gradevole profumo, veicolato da un venticello che porta dalle valli il pianto degli agnellini e il petulante abbaiare dei cani a cui danno risposta le rane de sos pojos sparsi nel territorio.
Qualche volta l’anima l’avvertivo negli aspri speroni de sas Coas come un vento che mi schiaffeggiava senza misericordia, quando mio padre mi portava con se: mentre lui sarchiava il grano tenero, io mi avventuravo in quei costoni alla ricerca di nidi e l’anima, penso davvero che fosse lei, non finiva di tormentarmi con fendenti freddi e pungenti. Dove l’anima di Chiaramonti si placava era presso il bosco dei frassini, vicino al paese, quando andavo da ragazzo a cogliere i ciclamini. Allora l’anima più antica quasi mi accarezzava, inondandomi di profumi delicati. Quell’antico bosco, relitto dei vasti boschi che coprivano tutto il territorio di Chiaramonti, secondo me, conserva la parte più antica dell’anima del paese che, nella zona abitata, estende la parte moderna, anzi contemporanea. L’anima, infatti e vasta e complessa, mica possiamo immaginarla come una nuvola estesa, tra quelle che a volte coprono l’alta volta di cielo dell’intera Anglona. A me pare che a tratti, quest’anima assuma le pose di una ragazza poco seria, specie, quando si sdraia nella torre del Mulino a Vento e si affaccia sonnacchiosa osservando quei piccoli uomini che si agitano invano nell’intrico viario. Un giorno mi sono accorto che fa anche le boccacce, quando vede due o tre donne spettegolare a sa Niera. S’imbroncia non appena si lascia andare come una gonna variopinta sul campanile e sul tetto di San Matteo. Io credo che si rattristi, a tratti si adiri, a sentir le mega-frottole che contano i chiaramontesi a s’Istradone sia che si accomodino presso i due bar di quell’emiciclo sia che si gettino come sacchi attorno al circolare gradone del fu, un tempo, fronzuto parco delle rimebranze e ora chiassoso e colorito giardino d’infanzia.
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Scritto da angelino tedde
Dopo un lungo periodo d’interruzione, forse preso dalla stanchezza di trascrivere per i visitatori di Tzaramonte un inventario assai sostanzioso di un ecclesiastico che si è dato da fare, facendo anche da procuratore ad una doviziosa Signora di Chiaramonti, e che si suppone seppellito in Monte ‘e Cheja in una delle quattro tombe della prima cappella a destra, entrando nell’aula della chiesa diroccata, riprendo la lettura su cui gli storici della tradizione e gli antropologi culturali e gli stessi storici dell’economia potrebbero trovare tanto da dire e da commentare.
Io, trascinato per amore del mio paese, un po’ fuori del mio settore, che è quello della storia dell’istruzione e delle istituzioni educative, ora non vedo l’ora di concludere per continuare a pubblicare i regesti degli altri atti dell’Ottocento (1827-1866).
E’ indubbio che sia dai beni mobili che dai beni immobili possiamo dedurre l’agiatezza di questo vice vicario che lascia usufruttuaria di tutto la sorella Francesca ed eredi le nipoti figli di un fratello.
Negli articoli precedenti abbiamo rilevato i lotti esistenti nelle altre camere dell’abitazione del vice vicario, ora ci soffermiamo sui lotti esistenti nella cucina comprendenti utensili e provviste, inoltre sulla consistenza del bestiame e sui beni immobili. Per facilitare la lettura abbiamo inserito tra parentesi il numero dei lotti a volte costituiti da un solo oggetto a volte da più oggetti.
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Scritto da angelino tedde
Come potrei riconoscere la mia identità se non avessi la memoria del mio passato? Non solo è scritto sull’estratto dell’atto di nascita e sulla carta d’identità, ma nella memoria dell’infanzia quando i miei compagni mi chiamavano col nome e cognome, più spesso col soprannome. Per dieci anni il mio nome e spesso il mio cognome lo pronunciavano le donne e gli uomini del vicinato, specie se combinavo qualche marachella.
A volte, più che col cognome, m’indicavano come su fizu de Angelinu Tedde, o semplicemente, fizu de Serefina Pira, dato che nella zona viveva una cugina di mamma, anziana, chiamata Serefina Soddu.
La mia identità veniva data anche dall’indicazione del rione in cui abitavo, sa Niéra, memoria persa di un’antica ghiacciaia oppure ricordo collettivo della neve che in quel pendio esposto a nord di Codinarasa, sostava più che in altre parti del paese; neve, così familiare tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Quanti candelotti di ghiaccio strappati alle tegole dei tetti bassi e consumati come gelati!
A ricordarti la tua identità poi, sempre nel vicinato, c’erano i compagni Giovannino e Ico Biddau, Faricu e Giovannina Tolis, Margherita e Giovanetta Biddau, i fratelli Pisanu e le sorelle Ruju-Cossiga, per dire soltanto dei ragazzi e delle ragazze. C’erano poi gli adulti: zia Domenica, zia Leonarda, zia Marietta, zia Nannedda, zia Mariantonia. Non sto a citare gli uomini le cui immagini si sono stagliate nella memoria cadenzate dall’incedere dei cavalli o degli asinelli che cavalcavano oppure a piedi, ricurvi, con la bisaccia ripiena e con gli arnesi da lavoro sulle spalle.
Infine, c’era la strada, via Garibaldi, e le strade e piazze adiacenti dove si andava a giocare rumorosamente: Caminu ‘e Litu, Piatta ‘e Caserma, Codinarasa su Mulinu ‘e su Entu.
Queste relazioni con le persone più vicine, con i luoghi presso cui sei vissuto, sono quelle che t’imprimono un marchio indelebile che solo la follia e la perdita totale della memoria possono toglierti.
Potrai vivere nelle lontane Americhe o in Australia, in Belgio o in Germania, in Piemonte o in Lombardia, a Varese o a Busto Arsizio, a Pinerolo o a Torino, a Catania o a Napoli, ma la tua identità non si cancella e con essa la memoria delle tue origini, con tutta la ricchezza delle emozioni che suscitano.
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Scritto da carlo moretti
Si è svolta in Chiaramonti, nell’aula del Consiglio comunale, la commemorazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, presente il Sindaco dott. Giancarlo Cossu i consiglieri di maggioranza, la segretaria comunale dott. Spissu, il brigadiere della stazione dei Carabinieri, il dirigente scolastico prof. Gianni Marras con una cinquantina di studenti delle scuole medie e le loro professoresse di Lettere e di Matematica. Invitato per il discorso commemorativo il prof. Angelino Tedde. Presenti anche un modesto numero di cittadini.
Nel corso della manifestazione celebrativa del grande avvenimento storico sono stati protagonisti gli studenti che in numero considerevole hanno espresso i loro pareri, le loro impressioni, i loro punti di vista sull’avvenimento. Per tanti versi hanno rispecchiato le varie posizioni sull’evento: alcune di plauso, altre critiche, altre entusiastiche. Nel complesso hanno rispecchiato la posizione degli storici che si dividono nella ricostruzione dell’Unità, mirando alcuni ad applaudire per la raggiunta meta, altri a criticarne le modalità, altre a mettere in rilievo il divario tra Nord e Sud. Per i loro interventi c’è da dire che era giusto dare a loro uno spazio così rilevante, considerando che saranno essi il futuro dell’Italia.
La commemorazione ha avuto inizio però con un breve, ma sostanzioso discorso del sindaco che, pur rilevando le contraddizioni del metodo con cui è stata raggiunta l’Unità d’Italia, ne ha però messo in evidenza i vantaggi, collegandola anche al concerto dell’Unione Europea, specie riguardo all’economia e alla pace tra loro.
Ha preso la parola anche il prof. Gianni Marras, che pur rimarcando le luci e le ombre del Risorgimento, ha rilevato la crescita democratica della Nazione e la sua posizione di protagonista all’interno dell’Unione Europea. Gl’Italiani c’erano già da secoli, ma occorreva unificarli.
Infine ha preso la parola lo scrivente che, dopo aver sottolineato che la fede cattolica, la lingua e la letteratura hanno da secoli unito tutti gl’italiani, mancava che liberi dalle potenze straniere e dalla divisione, si riunissero sotto una sola bandiera e, grazie soprattutto ai padri della patria: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele, che pur così diversi nelle personalità e nei ruoli svolti hanno raggiunto l’obiettivo di rendere l’Italia una nazione nell’ambito delle nazioni europee. I giovani debbono guardare a loro, pensando agli obiettivi di vita che intendono raggiungere, non scoraggiarsi mai, e lottare senza tregua e con coraggio per la loro realizzazione umana e civile sia che vogliano proseguire gli studi sia che vogliano dedicarsi ad altri ideali come fece Garibaldi che più che gli studi predilesse l’amore per la libertà dall’oppressione in tutto il mondo.
La commemorazione si è conclusa con la consegna della bandiera italiana, di quella sarda e di quella europea a tre studenti della scuola, perché le issino nell’edificio a significare l’Unità d’Italia, il contributo dato dalla Sardegna per essa, il concerto dell’Italia nel contesto dell’Unione Europea.
Col conto corale di “Fratelli d’Italia” si è conclusa la fausta ricorrenza.
Scritto da angelino tedde
Pagu apo drommidu custa segunda note de s’annu nou e tando in gabanu e cappellu mi so postu a girare peri sas carrelas. Bentu nonchent’ at, sas istellas parent riendee sa iddia est falada puru istanote chi non poto narrer profumada, puru si sa zente at in domopeta casu regotu ed ogni dulcura traditzionale.
Mi frimmo a s’abbojada de ogni carrela e intendo tzocos de ogni manera chi non cherzo mancu fentomare. Si cumprendet chi sa zente at mandigadu che sete canes, at buffadu che unu boe giavesu e a de note faghet pelea a nde catzare s’alenu. Zertu s’imbreagone paret una locomotiva de sos tempos, su chi at mandigadu che porcu paret late in buliadura, su cagassicu mancu s’intendet, puru si in custas dies at mandigadu a mata franca in dogni domo.
In calchi domo est devidu currer su dutore pro ajuare a ispilire imbreagheras e mandigheras foras de modu.
Pro no umiliare su patziente su dutore de sa guardia meiga, unu bellu e bravu zovanu, narat a totu chi si traterat de unu virus chi dae domo in domo faghet sa festa a chie agatat in sa gianna. E canta zente in custas die de inu e de mandigu s’est postu in gianna? Deo, sempre abbaidende dae sa corte cun su cannochiale apo idu solu giannas tancadas, si puru dae sas domos ant a bessire ciarras de ogni manera.
Cust’est zente chi no at fatu festa pro s’annu etzu chi s’inch’est boladu, ma pius a prestu at fatu
festa a sa bentre sua, puru cuddos chi intro s’annu ant a leare su tidulu de Barone de Campusantu. De custos Barones chend’at sempre de pius e sa idda si ch’est morzende ca como fizos non nde faghet niunu.
Unu fizu? Unu peraula est? Ti paret chi mi so laureada pro fagher fizos? Tue ses macu!
E peristantu mandigant che chentu bitellos orfanos de Othieri, dae sa pintzione de su babbu de sa mama e si b’est ancora su giaju issu puru faghet sa parte pro custas nebodeddas istudiadas, cum sempre in coddu sas prennas. Si daeboi faeddas cun sos nebodes diplomados o laureados de primu o de sigundu livellu (como si narat gasi) tando est sa fine de su mundu! Braghett’allegros eja, ma a fagher fizos, già b’ant pensadu a tempus soubabbu e mama, unu pagu istudiados e chena televisione o ateros apentos.
Como est unu giogu a morrocula ogni borta: una cosa est a si gosare, una gosa est a fagher fizos! Ello chie mi los campat, Bellusconi? E Tzaramonte finit cando ant a interrare s’ultimu Barone.
Sa cosa però non finit gasi, pruite poi su comune de Martis comporat totu, comente Bonorva at fatu cun Rebecu, e ogni annu faghent su yorkshop a base de casu, de regotu e de salstitza. E meda zente enit a visitare Tzaramonte e a narrer comente su machine de s’istudiu at insinzadu a sos giovanos a non fagher fizos, ma a giogare solu a morrocula!
Est bessende s’avreschida in su chelu de sa Rughe e deo cum custos pensamentos minche torro a domo.Cantos annos at a campare Tzaramonte? Dae Putugonzu appeddende su cane de tiu Antoninu paret che mi nerzat:
- Ite che faghes in logu furisteri, nessi sos canes nch’amus a istare sempre a Tzaramonte!-
-Cagliadi, cane runzosu! E lassa chi mi diat boghe su cucu!-
-Cucu bellu de cantare cantos annos bi gheret a Tzaramonte pro si trobojare?-
-
Su prim’e s’annu gia si ch’est boladu
in custa idda rica de ogni cosa
casu e regotu ant totu mandigadu
e che unu riu ant buffadu binu ‘e Bosa.
Arrochidos su note ant passadu
sos betzos cun sos zovanos in rosa
su bentre cripu fit meda buliadu
e cantaiat in poesia e in prosa.
Su dutore luego ant giamadu
chi nachi virus malu fit in giru
che su colera de tempus antigu.
Binu e casu in buca est torradu
e suta nd ‘est faladu solu a tiru,
de totu su dutore fit amigu.
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Anghelu de sa Niera