Scritto da carlo moretti
Capitolo 8
L’Anglona fra sardo e còrso durante l’età moderna
Per quanto riguarda Castelsardo, i primi accenni sulla sua varietà linguistica sono riferiti da Vittorio Angius che scriveva: “Usasi la stessa (lingua) che parlano la massima parte de’ galluresi” 166. Ma non sappiamo, a causa del periodo e della competenza linguistica dell’Angius, quanto questa osservazione corrispondesse all’effettiva realtà da lui osservata a Castelsardo nel periodo immediatamente precedente al 1837.
Non sembra un caso che nel medesimo articolo egli annotasse un’usanza tipica di Castelsardo, quella cioè di cantare per le strade dei componimenti poetici di sapore popolaresco. Scriveva l’Angius: “Perantonate. Chiamansi cosí certe volgari poesie le piú in stil bernesco che i giovani aggirandosi per le contrade soglion cantare nella sera dell’ultimo dell’anno, e della vigilia dell’Epifania e di s. Antonio presso le case dei signori e dei preti, da’ quali ricevon mancie o doni”.
Ora, la tradizione della perantunádda, attualmente in via di disuso, rimanda all’identica usanza ancora vitale a Sassari, dove un tipo di composizione simile viene detto góbbula, termine derivato dallo sp. Copla 167 con anaptissi e normale sonorizzazione e allungamento dell’occlusiva in contesto intervocalico.
Il vocabolo castellanese forse è insorto da una funzione dedicatoria di tale tipo di composizione poetica al patrono del borgo, S. Antonio. Anche da quest’ottica è possibile rilevare l’approssimazione delle annotazioni dell’Angius, quando classificava di “stile bernesco” questo esempio di poesia popolare. Ancora oggi, infatti, la perantunadda viene cantata soprattutto in onore di S. Antonio, da cui sembra desumersi che si tratta di una forma poetica non di basso livello ma anche di ispirazione religiosa.
In ogni caso, nei primi decenni dell’Ottocento la locale parlata di origine còrsa doveva essere profondamente radicata da tempo.
Per quanto concerne Sedini, denominazioni come su Furrághe, Campizólu, Badu ’e Súes, Pilághi, Littighéddu, Giánnas, ecc. 168 rendono chiaramente conto di una precedente vigenza del logudorese. Si tratta di toponimi che, talvolta inseriti nella stessa toponimia del centro urbano, sono tuttora pronunciati in logudorese oppure risultano adattati alla fonetica della parlata sedinese.
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 7
Alle origini del gallurese
Dove e quando di preciso insorsero i trattamenti rt > lt, rd > ld, rk > lk, rg > lg e come si estesero fino ad abbracciare tutto il settentrione della Sardegna? Questo discorso, come si vedrà appresso, investe in pieno il problema della formazione del dialetto gallurese.
La prima documentazione letteraria del gallurese è rappresentata dal corpus di poesie del religioso tempiese Gavino Pes, più noto col nome di Don Baígnu, la cui attività si dispiegò interamente all’interno del Settecento. 148
Orbene, per fonetica, morfologia, sintassi e lessico le composizioni del Pes non differiscono affatto dall’odierno gallurese comune che ha il suo centro di riferimento proprio in Tempio. Le uniche differenze sono date, a livello lessicale, da un buon numero di spagnolismi ormai parzialmente caduti in disuso.
Il gallurese del ’700 presenta dunque una veste assai simile a quello contemporaneo. Fra i suoi tratti fonetici più significativi si rileva proprio la costante risoluzione rk, rg > lk, lg; rt, rd > lt, ld; rp, rb > lp, lb. Esempi: palchí “perché”, impultanti “importante”; viltuosu “virtuoso”; immoltali “immortale”, taldá “tardare”, palditti “perderti”; impliá “emplear” (sp.), ecc 149.
Nel còrso moderno questi esiti non sono affatto sconosciuti (v. cap. 7). Non mancano casi di s > r come, ad es., altóre “astore” per astore (gall. altóri) oppure di r per l, come in partinaca “pastinaca” per pastinaca. Ma, contrariamente al gallurese, in cui il fenomeno del lambdacismo rappresenta la regola, nel còrso si tratta di esempi sporadici ben lontani, per quantità, dalla situazione dello stesso logudorese sett. e di ampie zone del logudorese comune che si spingono fino alla linea che unisce Bosa a Bonorva, Osidda e Budoni, centri lontani da cinquanta a oltre cento chilometri dall’area di irraggiamento del fenomeno.
Oltre a questo peculiare aspetto, vanno segnalati altri trattamenti che, pur mantenendo il gallurese nell’àmbito del còrso oltremontano, lo differenziano a tal punto da renderlo una varietà nettamente autonoma. È il caso, per es., della caduta della fricativa labiodentale sonora in posizione intervocalica (còrso avé, móve, primavéra, gréve; gall. aé, muí, grái).
Nel còrso odierno anche questo fenomeno non è sconosciuto, come documenta, ad es., la caduta di v- preceduto da sillaba atona; es.: lu ’ól’u “lo voglio”. Ma si tratta pur sempre di scostamenti rispetto alla regola generale che invece ne vuole il mantenimento.
Un altro tratto caratteristico del gallurese è rappresentato dall’assimilazione progressiva del nesso -rn-, tipica del sardo (còrso turná, gall. turrá); del trattamento kù- > k- che appare antico (còrso: questu/quistu, quessu, quici, quiɖɖu/quillu, quindeci vs. gall. chístu, chissu, chíci, chíɖɖu, chíndici); del perfetto in -ési, -ísi documentato già nel Cinquecento e oggi unica uscita del gallurese, mentre nel logudorese sett. è caduto in disuso di fronte alle più antiche uscite in –ei impostesi alle forme medievali in -ai.
Il lessico gallurese per circa il 18-20% è rappresentato da prestititi logudoresi acquisiti da un tempo imprecisabile.
Anche il còrso, però, una volta trapiantato nella parte settentrionale della Sardegna, produsse un influsso notevole.
Forme còrse come cascio “formaggio” sono attestate in logudorese, sia pure con diversa veste grafica (caxu), fin dal Settecento 150.
Già nel Settecento il gallurese era infarcito di spagnolismi e i prestiti catalani non erano inferiori per numero a quelli castigliani. Per gran parte di queste voci d’accatto va osservato, anzi, che il gallurese si mostra più conservativo del logudorese. Ora, si sa che l’influsso catalano nella Sardegna settentrionale cominciò ad arretrare fin dalla seconda metà del ’500 e che l’uso di questa lingua si protrasse fin verso la metà del Seicento ma quasi soltanto come codice linguistico delle più alte gerarchie ecclesiastiche 151. Quindi già nel primo Seicento il catalano doveva conoscere una fase di irreversibile regresso. Donde proviene, allora, la presenza di tantissime parole catalane al gallurese?
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 6
Le palatalizzazioni nei dialetti della Sardegna settentrionale
Da un punto di vista sincronico, sulle palatalizzazioni che caratterizzano i dialetti della Sardegna settentrionale si può affermare che gli studi condotti fino ad oggi hanno detto praticamente tutto quello che era ed è possibile osservare. Alle indagini di Wagner e Bottiglioni si sono aggiunte, alcuni anni fa, le osservazioni di Paulis che hanno completato in modo esaustivo il quadro delle conoscenze sull’argomento. Non solo, le analisi strumentali di Contini consentono perfino di individuare le linee evolutive del fenomeno, la cui vitalità, almeno per quanto attiene alle aree periferiche rispetto all’epicentro dell’innovazione, non sembra essere giunta al termine. Ciò si comprende bene se si inserisce questo discorso all’interno di un orizzonte in cui agiscono altri fattori che concorrono alla dilatazione o, al contrario, alla regressione delle innovazioni di tipo linguistico. Fattori che altri studiosi hanno da tempo individuato nel prestigio che una determinata varietà può acquisire a seguito dell’espansione della sfera d’influenza politica, economica, amministrativa e culturale da parte dell’area demografica di cui è espressione.
Successivamente da tale area l’innovazione può propagarsi a quelle finitime oppure può essere “paracadutata” in una exclave, in genere rappresentata da un centro più evoluto rispetto ad altri, e da quest’ultimo seguire autonome vie di espansione.
Tutto ciò da un punto di vista sincronico. Dal lato diacronico le cose sono meno pacifiche e non può essere altrimenti se si considera che la conoscenza storica di un fenomeno linguistico si basa su documenti che, tuttavia, a volte possono mancare o essere insufficienti per una loro descrizione puntuale. Wagner nella sua magistrale opera sulla fonetica sarda (HLS), poi ampliata da Paulis (FSS), riuscì a portare a sintesi queste conoscenze, sintesi di cui, considerato il periodo durante il quale svolse le sue indagini, le conclusioni sono largamente da condividere. La successiva edizione, da parte del Sanna, del Codice di S. Pietro di Sorres consentì di disporre di un testo fondamentale per un più esauriente inquadramento della questione.
Nell’introduzione alla fonetica wagneriana Paulis si è valso puntualmente dei nuovi dati per tracciare il nuovo orizzonte, ormai quasi definitivo, al quale le nostre informazioni sono pervenute.
In generale le conclusioni di Wagner sono state convalidate, con qualche distinguo, dagli autori successivi, i quali in pratica hanno operato una retrodatazione dell’insorgenza delle palatalizzazioni rispetto al sec. XVI. È questo infatti il periodo che il linguista tedesco, sulla scorta degli esperimenti poetici dell’Araolla, assumeva come riferimento cronologico. Non che egli non avesse intravisto, in fonti anteriori, sporadiche interferenze che segnalavano una più antica insorgenza del trattamento. Wagner, anzi, individuava in un nucleo di documenti del sec. XV, pubblicato dal Tola nel suo monumentale Codex, altri dati utili per una più soddisfacente datazione della fase in cui l’innovazione in questione prese piede per poi consolidarsi. A tale nucleo appartiene, per l’esattezza, anche una parte del citato Codice di Sorres, già pubblicata dal canonico Giovanni Spano poco dopo la metà dell’Ottocento. 144
Sta qui, appunto, il nòcciolo del discorso che, giunto a risultati ormai acquisiti sul versante sincronico, stenta a trovare una precisa definizione storica. Wagner, con la prudenza che lo distingueva, tendeva a descrivere i singoli fenomeni in presenza di una documentazione ricca che lo mettesse al riparo da sviste sempre possibili in una disciplina che difficilmente ammette approssimazioni. Ma forse in questa tendenza è da scorgere una minore propendenza del grande tedesco all’analisi dei fatti storici sia pure in chiave linguistica. Un chiaro indizio in tal senso è rappresentato dalla sua adesione, sorprendentemente acritica, alla teoria delle “mortalissime pestilenze” addotta da Vittorio Angius per giustificare la nascita del dialetto sassarese.
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 5
Un’antica epigrafe in gallurese
È invalsa, fra gli studiosi, l’opinione che la colonizzazione còrsa del Nord-Est della Sardegna e la conseguente introduzione del dialetto gallurese siano un fatto relativamente recente, da inquadrare fra il XVII e il XVIII secolo. 67 In realtà si tratta di una visione tradizionale mai sottoposta a verifica.
Una serie di dati consente infatti di retrodatare la presenza còrsa in Gallura almeno alla metà del ’500 e, relativamente alla contigua regione dell’Anglona, al pieno ’400. Sotto questo profilo ci occuperemo qui di un’epigrafe che si osserva all’esterno dell’abside della chiesa romanica di Santa Vittoria del Sassu (Perfugas, Sassari).
1. La chiesa di Santa Vittoria del Monte Sassu.
La chiesa campestre di Santa Vittoria è situata in uno spiazzo alle pendici settentrionali del Monte Sassu 68, nella regione storica dell’Anglona, antica curatoria del Regno di Torres. 69 Si tratta di piccolo edificio romanico risalente al XII secolo.
Il titolo di Santa Vittoria del Sassu si rileva in una tabella lignea affissa all’interno della chiesa, con la quale il vescovo Diego Capece nel 1836 concedeva quaranta giorni d’indulgenza a coloro che vi si fossero recati a pregare. Il fatto che la curia ampuriense, cui si deve la commissione della tabella, indicasse il toponimo Sassu sembra significare che quello citato sia l’originario titolo ufficiale del monumento.
In letteratura la sua prima citazione è riportata nel lavoro enciclopedico di Vittorio Angius 70, che la ricordava col titolo di Santa Vittoria di Campu d’Ulumu, il quale riflette la denominazione della più vicina località abitata. In seguito ne fece cenno il Pellizzaro col titolo di Santa Vittoria di Erula, datandola all’ultima fase del romanico sardo 71. La chiesa venne infine citata da P. Sella, che localizzò erroneamente nel suo sito il villaggio medievale di Gavazana 72. Egli, identificando il titolo di Santa Vittoria, antica parrocchiale di Gavazana, con la chiesa in questione stabiliva un’identità pur senza disporre di alcun elemento per sostenere tale tesi. In realtà il villaggio medievale di Gavazana sorgeva nella località detta attualmente Battána, a metà strada fra Perfugas e Laerru, dove si conserva ancora il toponimo Santa Vittoria 73. Purtroppo, come spesso accade, l’errata indicazione del Sella continua ad avere riflessi ogniqualvolta la chiesa in questione venga citata in lavori che hanno per tema i monumenti medievali dell’Anglona.
Di recente, infatti, seguendo l’opinione di quello studioso, sono incorsi nella medesima svista anche P. Marras 74 e R. Coroneo 75.
Il sito dove sorge la chiesetta dovette appartenere in origine al villaggio scomparso di Bangios, un tempo situato al piede settentrionale del Sassu, circa quattro chilometri in linea d’area Leggi tutto »
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Capitolo 4
Interferenze corse in documenti dei secc. XIV-XV
Sotto il profilo storico la questione della colonizzazione còrsa della Sardegna settentrionale è rimasta a lungo inesplorata. Soltanto di recente una serie di studi sta mettendo in luce una realtà che era sottesa da una salda presenza linguistica 54. In realtà una forte presenza dei còrsi è attestata, per la città di Sassari, fin dai secoli XIV-XV 55.
L’epigrafe di Santa Vittoria del Sassu (v. cap. 5) in apparenza sembrerebbe rappresentare un documento avulso da un contesto linguistico che finora gli studiosi avevano ritenuto caratterizzato dalla presenza del solo logudorese.
In realtà è sufficiente gettare uno sguardo attento su alcuni documenti bassomedievali per rendersi conto che il còrso vigeva da tempo nel settentrione sardo e che forse in alcune zone stava già soppiantando la lingua originaria. Sotto il profilo fonetico non è difficile dimostrare che diversi prestiti del dialetto gallurese furono acquisiti prima del ’500. Basti pensare a risoluzioni come dècchitu “elegante” dove la velare sorda, al pari dell’identica forma del moderno logudorese, si è cristallizzata senza seguire la regolare evoluzione k > g. La forma gallur. suiɖɖátu “tesoro nascosto” risulta più arcaica rispetto allo stesso logud. siɖɖádu. Essa parrebbe derivare dal logud. ant. sigillu evolutosi fin dal Duecento in siillu col regolare dileguo della velare sonora intervocalica 56.
È da quest’ultima forma che potrebbe essersi svolto il gallur. suiɖɖátu con cacuminalizzazione della liquida intensa e dissimilazione i-i ~ u-i delle due vocali iniziali trovatesi in contatto per la caduta della precedente -g-. La relativa trafila sarebbe la seguente: logud. ant. siillu > *siillatu (> logud.mod. siɖɖádu) > gallur. suiɖɖátu. Tuttavia, gall. suiddatu può costituire, più probabilmente, una variante dileguata di crs. oltrm. suviɖɖátu (Sotta).
Un altro esempio può essere fornito dall’avverbio chizzu [’kits:u] “presto, di buonora” che non può derivare dal logud. moderno chitto. La base è rappresentata infatti dal logud. ant. kitho < CITIO per CITIUS 57. Ora, siccome la forma logudorese moderna si è sviluppata verosimilmente entro la metà del XV secolo 58, si deve ritenere che anche la variante gallurese sia insorta entro il medesimo periodo storico.
Allo stesso modo si possono portare ulteriori prove che il còrso era vitale in Sardegna durante il Trecento e forse anche nel secolo precedente. Questa ipotesi appare valida soprattutto per le colonie còrse che dovevano essersi stabilite nei maggiori centri della Sardegna settentrionale e nei capoluoghi delle curatorie (Sassari, Sorso, Castelsardo, Tempio, Terranova). Sia sufficiente citare il suffisso –ára che compare in toponimi importantissimi come Limbara, Tavolara, Molara, Asinara, alcuni dei quali sono documentati già nel basso medioevo. Si tratta di un caratteristico suffisso còrso attestato, appunto, anche nella Sardegna settentrionale 59.
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 3
Sardo e còrso dallo scorcio del Medioevo agli inizi dell’Etá Moderna
Che il settentrione della Sardegna, almeno dalla seconda metà del Quattrocento, fosse interessato da un forte presenza còrsa si può desumere da diversi punti di osservazione. Il Wagner, a proposito delle desinenze del perfetto, osservava che le antiche forme logudoresi “…nei testi dei secc. XVI e XVII occorrono ancora, ma accanto alle nuove formazioni in -ési”, precisando che le forme del perfetto debole della 3^ coniugazione “…sono state soppiantate, a partire dal sec. XVI, da nuove forme di perfetto, nelle quali la desinenza -esi, -isi, presa dai perfetti in -s-, si affigge ora al tema del presente, ora a quello del perfetto; accanto a presi sorge prendesi; accanto a fegi si dice fegisi, ecc.
Oggi tutti i verbi formano un perfetto in – ési nel logud. sett., unica regione in cui attecchí tale formazione, e accanto a questa ve n’è un’altra in -éi senza differenza di funzione e di significato”32.
Non vi è chi non veda la correttezza delle osservazioni del grande tedesco, ma donde proviene la desinenza in -ési del perfetto nel logudorese settentrionale? E come mai essa si radicò, accanto alle genuine forme in -ai ed -ei, soltanto nell’area settentrionale del Logudoro?
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 2
Il trattamento del nesso –rt- a Castelsardo fra il 1321 e il 1337
Gli studi condotti finora dai linguisti non si sono fondati su una prospettiva storica che considerasse nella giusta luce i documenti, editi e inediti, che dimostrano la vigenza del còrso in Anglona già nel basso medioevo.
In effetti, già attraverso il lessico logudorese degli Statuti di Castelgenovese è possibile cogliere, seppure mascherate dalla terminologia tecnica di impronta toscaneggiante, diverse interferenze di origine còrsa.
È il caso di fare pochi ma illuminanti esempi (fra parentesi si riportano le corrispondenti forme della parlata di Castelsardo):
cap. LVI: “stragnu” (cast. strágnu)
CLIII e passim: “gictare, gittare” (cast. gittá)
CCVI: “marthesis” (cast. maltési)
CCVI: “nurachi” (cast. nurághi)
CCXIII: “lavare” (cast. lavá)
CCXV: “lauare et sciaquare” (cast. lavá e sciuccá)
Questo aspetto si può cogliere attraverso i prodromi di quello che diverrà uno dei tratti più caratteristici della fonetica sia dei dialetti gallurese e sassarese sia delle parlate intermedie di Castelsardo e Sedini sia, infine, della stessa varietà settentrionale del logudorese: l’esito l- + consonante dei nessi latini L-, R-, S- + consonante. Un’efficace marca della vigenza del trattamento -RT > -lt già nei primi decenni del XIV secolo è rappresentato dal toponimo Murtetu, che il notaio Francesco Da Silva riportava nella forma latinizzante Multedo. 15
A torto il giurista castellanese Zirolia lo attribuiva a una fondazione genovese rievocativa dell’omonimo centro dell’odierna periferia genovese16. La presenza nella medesima area ligure di una borgata denominata Murta (< MYRTA) lascerebbe ritenere che la forma continentale Multedo possa avere tratto origine non dal medesimo fitonimo ma da un altro etimo. D’altra parte l’esito R > l in nesso con occlusiva è conosciuto persino nell’area più conservativa della stessa Sardegna. Si confrontino, ad esempio, i vocaboli orgolesi melʔa “latte inacidito” anziché mèrka 17, ʔélʔu “quercia” anziché kérku18 e trèlʔa anziché trèkka “luogo scosceso” 19.
L’origine dei particolari esiti del sassarese e del logudorese settentrionale, però, va vista preferibilmente nell’influsso genovese, come suggerisce l’occorrenza nel sassarese di -l- > – r- (ára “ala”, méra “mela” 20) allo stesso modo che nel dialetto genovese. Ma non va escluso che tutta la complessiva questione dei nessi consonantici della Sardegna settentrionale sia da ricomprendere nel contesto del fenomeno più generale, di origine galloromanza e comunque continentale, che va sotto il nome di vocalizzazione di [l] 21.
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