Scritto da carlo moretti
La cerimonia si è svolta nella sala Angioi che era praticamente gremita. Alla serata, che è stata allietata da alcuni intermezzi musicali, ha partecipato anche il dott. Angelo Mura, in rappresentanza dell’Amministrazione Provinciale di cui è vice presidente.
La presentazione delle attività di Mauro Maxia in campo culturale e delle loro positive ricadute sul territorio è stata fatta dal vice presidente della Consulta, dott. Angelo Ammirati, che è direttore uscente dell’Archivio di Stato di Sassari. Poi è intervenuto anche il prof. Massimo Pittau che ha illustrato il contenuto delle sue opere e la metodologia che ha impiegato nelle sue ricerche sul campo. Infine il premiato ha mostrato al pubblico alcune immagini attraverso le quali ha spiegato che anche lui è un volontario, in questo caso della cultura, come tutti componenti delle associazioni di volontariato che costituiscono la Consulta.
L’assegnazione del “Premio Nuraghe per la Cultura 2013″ da parte della Consulta Provinciale di Sassari delle Associazioni di Volontariato è stata data con la seguente motivazione: “per il costante contributo dato con numerose pubblicazioni e attività alla diffusione della conoscenza del territorio, del suo patrimonio linguistico e dei suoi beni culturali “.
Aggiungiamo anche che Mauro Maxia ha vinto l’abilitazione nazionale di Filologia e Linguistica italiana da una commissione di esperti composta anche da un professore straniero. Non resterebbe che chiamarlo all’Università e conferirgli una cattedra di professore associato quale egli è stato riconosciuto.
Le dinamiche del potere universitario però non sono quelle del riconoscimento dell’eccellenza nella ricerca, ma di altri elementi dall’ermeneutica difficile e oscura.
Noi che apprezziamo da tempo e continuiamo ad apprezzare Mauro Maxia ci auguriamo che questo riconoscimento gli venga dato con la chiamata ad un’ apposita cattedra di Filologia e di Linguistica senza togliere niente a nessuno. L’Università di Sassari che ben lo conosce non dovrebbe esitare a compiere quanto dovuto o forse gli Anglonesi una volta tanto dovrebbero marciare su Sassari per il dovuto riconoscimento di un figlio illustre?
Scritto da angelino tedde
Massimo Pittau e Angelino Tedde sono lieti di comunicare ai numerosi amici ed estimatori di Mauro Maxia, sardi continentali e stranieri e al mondo accademico che egli ha superato brillantemente il concorso nazionale per professore universitario associato. Riportiamo il lusinghiero giudizio collegiale che la commissione nazionale (integrata da un commissario dell’OCSE) ha formulato su di lui:
“Il candidato Maxia Mauro è funzionario presso una pubblica istituzione. Ha svolto attività di docente a contratto presso le Università di Cagliari e di Sassari tra il 2002 e il 2012; fa parte del Comitato scientifico del progetto dell’Atlante Toponomastico Sardo e del Consiglio scientifico del Comité d’Etudes Scientifiques Informatiques Toponymiques de Corse.
Ha partecipato con interventi a convegni nazionali e internazionali. Secondo gli indicatori quantitativi del Cineca[1] il candidato supera le tre mediane e ha un’età accademica di anni 19,751.
Il candidato dichiara complessivamente 60 pubblicazioni, tra le quali otto monografie (anche in collaborazione) e 18 articoli o capitoli di libri. La sua prima pubblicazione è apparsa nell’anno 1993. Le attività di ricerca sono state svolte con buona continuità anche negli ultimi cinque anni e sono state condotte con rigore metodologico e, con riferimento in particolare alla dialettologia dell’area sarda, hanno consentito di raggiungere risultati innovativi.
Il contributo del candidato risulta complessivamente significativo e documenta la sua maturità scientifica. Gli undici lavori presentati (tra cui cinque monografie, di cui una in collaborazione) sono stati valutati analiticamente (nel ssd L FIL LET 12) alla luce dei criteri e parametri deliberati dalla commissione e risultano coerenti con il settore concorsuale. Si segnalano in particolare un volume sulla fonetica dell’area gallurese (n. 1), un saggio sulla posizione del gallurese e del sassarese (n. 9), un volume di studi linguistici sardo-còrsi (n. 4) e una monografia (n. 7) in cui sono presentati i dati di un’indagine sociolinguistica svolta in tre comuni della Sardegna settentrionale. Altri studi riguardano la toponomastica (n. 3 e n. 8) e l’onomastica (n. 10).
Inoltre il contributo del candidato alla ricerca del settore si concretizza nella pubblicazione e nello studio linguistico di testi (n. 6, in collaborazione, e nn. 2, 5, 11). Nei lavori in collaborazione è indicata esplicitamente l’attribuzione delle parti ai diversi autori. La qualità della produzione scientifica è positiva, come la collocazione editoriale, per cui la valutazione è positiva.
Considerati i titoli presentati e la valutazione di merito sulle pubblicazioni, la commissione delibera all’unanimità l’attribuzione al candidato (valutato nel ssd L-FIL-LET/12) dell’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore di seconda fascia nel settore concorsuale 10 /F3.”
L’abilitazione nazionale di Mauro Maxia dimostra che quando le commissioni giudicatrici operano in modo obiettivo e senza sistemi spartitori a vincere i concorsi sono davvero i migliori. Del resto, come semplici lettori dei suoi studi abbiamo avuto nel corso degli anni l’opportunità di apprezzare il valore delle sue numerose ricerche e il rigore delle metodologie seguite, rammaricandoci sempre che gli Atenei di Cagliari e di Sassari, pur apprezzandolo e conferendogli continui insegnamenti a contratto, non avessero bandito dei concorsi per inserirlo nelle strutture accademiche. Ora ci auguriamo che almeno una delle due università prenda atto non solo del titolo conseguito dal nostro studioso, ma che gli dia la soddisfazione di una cattedra universitaria che andrebbe di certo a beneficio sia degli studenti sardi sia della cultura sarda. (A.T.)
[1] Consorzio Interuniversitario per la gestione del centro di Calcolo elettronico.
Scritto da carlo moretti
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 8
L’Anglona fra sardo e còrso durante l’età moderna
Per quanto riguarda Castelsardo, i primi accenni sulla sua varietà linguistica sono riferiti da Vittorio Angius che scriveva: “Usasi la stessa (lingua) che parlano la massima parte de’ galluresi” 166. Ma non sappiamo, a causa del periodo e della competenza linguistica dell’Angius, quanto questa osservazione corrispondesse all’effettiva realtà da lui osservata a Castelsardo nel periodo immediatamente precedente al 1837.
Non sembra un caso che nel medesimo articolo egli annotasse un’usanza tipica di Castelsardo, quella cioè di cantare per le strade dei componimenti poetici di sapore popolaresco. Scriveva l’Angius: “Perantonate. Chiamansi cosí certe volgari poesie le piú in stil bernesco che i giovani aggirandosi per le contrade soglion cantare nella sera dell’ultimo dell’anno, e della vigilia dell’Epifania e di s. Antonio presso le case dei signori e dei preti, da’ quali ricevon mancie o doni”.
Ora, la tradizione della perantunádda, attualmente in via di disuso, rimanda all’identica usanza ancora vitale a Sassari, dove un tipo di composizione simile viene detto góbbula, termine derivato dallo sp. Copla 167 con anaptissi e normale sonorizzazione e allungamento dell’occlusiva in contesto intervocalico.
Il vocabolo castellanese forse è insorto da una funzione dedicatoria di tale tipo di composizione poetica al patrono del borgo, S. Antonio. Anche da quest’ottica è possibile rilevare l’approssimazione delle annotazioni dell’Angius, quando classificava di “stile bernesco” questo esempio di poesia popolare. Ancora oggi, infatti, la perantunadda viene cantata soprattutto in onore di S. Antonio, da cui sembra desumersi che si tratta di una forma poetica non di basso livello ma anche di ispirazione religiosa.
In ogni caso, nei primi decenni dell’Ottocento la locale parlata di origine còrsa doveva essere profondamente radicata da tempo.
Per quanto concerne Sedini, denominazioni come su Furrághe, Campizólu, Badu ’e Súes, Pilághi, Littighéddu, Giánnas, ecc. 168 rendono chiaramente conto di una precedente vigenza del logudorese. Si tratta di toponimi che, talvolta inseriti nella stessa toponimia del centro urbano, sono tuttora pronunciati in logudorese oppure risultano adattati alla fonetica della parlata sedinese.
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 7
Alle origini del gallurese
Dove e quando di preciso insorsero i trattamenti rt > lt, rd > ld, rk > lk, rg > lg e come si estesero fino ad abbracciare tutto il settentrione della Sardegna? Questo discorso, come si vedrà appresso, investe in pieno il problema della formazione del dialetto gallurese.
La prima documentazione letteraria del gallurese è rappresentata dal corpus di poesie del religioso tempiese Gavino Pes, più noto col nome di Don Baígnu, la cui attività si dispiegò interamente all’interno del Settecento. 148
Orbene, per fonetica, morfologia, sintassi e lessico le composizioni del Pes non differiscono affatto dall’odierno gallurese comune che ha il suo centro di riferimento proprio in Tempio. Le uniche differenze sono date, a livello lessicale, da un buon numero di spagnolismi ormai parzialmente caduti in disuso.
Il gallurese del ’700 presenta dunque una veste assai simile a quello contemporaneo. Fra i suoi tratti fonetici più significativi si rileva proprio la costante risoluzione rk, rg > lk, lg; rt, rd > lt, ld; rp, rb > lp, lb. Esempi: palchí “perché”, impultanti “importante”; viltuosu “virtuoso”; immoltali “immortale”, taldá “tardare”, palditti “perderti”; impliá “emplear” (sp.), ecc 149.
Nel còrso moderno questi esiti non sono affatto sconosciuti (v. cap. 7). Non mancano casi di s > r come, ad es., altóre “astore” per astore (gall. altóri) oppure di r per l, come in partinaca “pastinaca” per pastinaca. Ma, contrariamente al gallurese, in cui il fenomeno del lambdacismo rappresenta la regola, nel còrso si tratta di esempi sporadici ben lontani, per quantità, dalla situazione dello stesso logudorese sett. e di ampie zone del logudorese comune che si spingono fino alla linea che unisce Bosa a Bonorva, Osidda e Budoni, centri lontani da cinquanta a oltre cento chilometri dall’area di irraggiamento del fenomeno.
Oltre a questo peculiare aspetto, vanno segnalati altri trattamenti che, pur mantenendo il gallurese nell’àmbito del còrso oltremontano, lo differenziano a tal punto da renderlo una varietà nettamente autonoma. È il caso, per es., della caduta della fricativa labiodentale sonora in posizione intervocalica (còrso avé, móve, primavéra, gréve; gall. aé, muí, grái).
Nel còrso odierno anche questo fenomeno non è sconosciuto, come documenta, ad es., la caduta di v- preceduto da sillaba atona; es.: lu ’ól’u “lo voglio”. Ma si tratta pur sempre di scostamenti rispetto alla regola generale che invece ne vuole il mantenimento.
Un altro tratto caratteristico del gallurese è rappresentato dall’assimilazione progressiva del nesso -rn-, tipica del sardo (còrso turná, gall. turrá); del trattamento kù- > k- che appare antico (còrso: questu/quistu, quessu, quici, quiɖɖu/quillu, quindeci vs. gall. chístu, chissu, chíci, chíɖɖu, chíndici); del perfetto in -ési, -ísi documentato già nel Cinquecento e oggi unica uscita del gallurese, mentre nel logudorese sett. è caduto in disuso di fronte alle più antiche uscite in –ei impostesi alle forme medievali in -ai.
Il lessico gallurese per circa il 18-20% è rappresentato da prestititi logudoresi acquisiti da un tempo imprecisabile.
Anche il còrso, però, una volta trapiantato nella parte settentrionale della Sardegna, produsse un influsso notevole.
Forme còrse come cascio “formaggio” sono attestate in logudorese, sia pure con diversa veste grafica (caxu), fin dal Settecento 150.
Già nel Settecento il gallurese era infarcito di spagnolismi e i prestiti catalani non erano inferiori per numero a quelli castigliani. Per gran parte di queste voci d’accatto va osservato, anzi, che il gallurese si mostra più conservativo del logudorese. Ora, si sa che l’influsso catalano nella Sardegna settentrionale cominciò ad arretrare fin dalla seconda metà del ’500 e che l’uso di questa lingua si protrasse fin verso la metà del Seicento ma quasi soltanto come codice linguistico delle più alte gerarchie ecclesiastiche 151. Quindi già nel primo Seicento il catalano doveva conoscere una fase di irreversibile regresso. Donde proviene, allora, la presenza di tantissime parole catalane al gallurese?
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Scritto da ztaramonte
È documentato che dall’alto al tardo medioevo l’isola era popolata da numerosissime ville (chi sostiene 745 e chi oltre mille) che tra il secolo XIII e XIV furono abbandonate o quantomeno persero le caratteristiche abitative precedenti per diventare veri e propri villaggi di epoca moderna con un maggior numero di abitanti, ma assai ridotte rispetto alle ville medievali (circa 290/300).
Le ville in genere potevano avere da dieci a cento fuochi fiscali e da 40 a 400 abitanti che pagavano le tasse.
La nostra Orria Pithinna era una di queste ville identificata dall’équipe di Marco Milanese nelle tanche che guardano il fianco ovest di Santa Maria Maddalena e che degradano da Monte Columba. Presso la villa scorreva il rio Iscanneddu secondo gli storici, probabilmente dotato di un mulino ad acqua.
Il villaggio era situato in un crocevia di strade che conducevano a Tatari e a Piaghe a Oesteana de monte (Osilo) a Nugulbi e poi verso Ampurias e Coghinas. Diciamo pure che la villa aveva buone a proficue localizzazioni stradali agricole, aziendali, con abbondanza di terreni seminativi, pascolativi e animali e boschi.
A questo si aggiungano uomini e donne liberi e servi di nobili imparentati, con i giudici di Torres.
La villa di Orria Pithinna
Nell’anno del Signore 1135 quasi sicuramente la nostra villa esisteva come ricordava il toponimo, i documenti storici, e confermano oggi le ricerche archeologiche. All’epoca, dall’altra parte della strada, vale a dire sullo spiazzo che contiguo a sos Renalzos, sito della chiesa e non solo, esistevano fattorie, terreni, boschi, animali e uomini liberi e servi della famiglia dei giudici di Torres. Non sappiamo in che rapporti fossero gli abitanti della villa con la famiglia De Thori, ma di certo nel villaggio abitavano servi legati ad essa da vincoli di servitù e quindi di lavoro e uomini liberi capeggiati dal majore de villa e da altri pochi notabili che la governavano. Esisteva anche la chiesetta parrocchiale del villaggio, intestata a san Nicola, in linea con l’area di sedime dove 70 anni più sarà edificato il monastero.
La chiesa era retta dal parroco che di certo non aveva da compilare l’anagrafe parrocchiale non ancora istituita. I servi e liberi nascevano e morivano senza lasciar traccia di sé, a meno che non finissero per svariati motivi negli atti notarili dei condaghi o fossero componenti della famiglia giudicale di Torres.
L’abbondanza di seminativi e pascoli che la valle ampia offriva comprendendo in essa la più ricca e abitata di Orria Manna; la presenza forse di un altro mulino ad acqua più a monte, non molto lontano dall’esistente chiesa di Santa Giusta da cui scaturiva un’abbondante sorgente di acqua, inoltre la collina di sos Renalzos forse piantata a vigna, i boschi più in alto nei pressi de sa Serra e sicuramente nella zona di Nicu, davano agli uomini e alle donne della villa l’opportunità di vivere con una certa agiatezza a patto che si rispettassero le consuetudini.
Una delle tante donne che si recava solitamente a lavare i panni presso il rio, una mattina d’inverno, raccontò alle altre d’aver sentito proprio dalla sorella della protagonista questo fatto
La nascita alla Storia di Orria Pithinna
L’anno del Signore millecentrotrantacinque, forse in una notte di gennaio, a cavallo, percorrendo i tratturi che dall’abbazia di Salvennor, portavano verso Osteana de Montes e Nugulbi, e poi deviavano verso la chiesa di Santa Giusta, Petru de Flumen bussò alla porta della sorella di Maria Pira che abitava nel primo rione della villa di Orria Pithinna.
La donna, sui 50 anni, aprì, riconobbe al lume di stearica il volto stanco e la pancia tondeggiante della sorella. La fece entrare insieme all’accompagnatore, la invitò a sdraiarsi sul letto di legno con materasso di paglia ed esclamò:
- Che ti è successo Maria?
La donna non rispose, ma Petru de Flumen, uomo libero, originario di Villa Alba, anche lui residente a Salvennor, disse:
- Sta per sbocciare il fiore che abbiamo seminato a primavera inoltrata, ma tu sai io sono un uomo libero e la consuetudine impedisce che io la sposi. Credo che fermandoci da te fino al parto potremo poi, in barba al priore di Salvennor, sposarci e vivere serenamente.-
- Incosciente, rispose Giusta, sai bene che i monaci di Savennor non accetteranno di buon grado questo matrimonio, essendo lei di pertinenza del monastero. Potevate evitare queste cose e tu già sei uomo di mondo. Maria è serva della chiesa e i suoi frutti appartengono alla stessa chiesa. Di certo il parroco di Santu Nicolau non benedirà le vostre nozze.
I procuratori di Salvennor in men che non si dica, sapendo che io abito in questa villa, non si faranno attendere anche perché qui è un crocevia di passaggio e dai quattro punti cardinali arriva gente che riferirà dove vi siete rifugiati!-
Una settimana dopo, nacque un maschietto e anche di fronte all’evidenza il parroco di Santu Nicolau non volle sposare i due fuggiaschi.
Nel frattempo Maria allattava il bambino e la sorella la nutriva come la loro condizione permetteva, pentolame molto grezzo, brocche mal rifinite, mestoli di sughero e legna, non mancava una cassapanca per il pane e nicchie scavate nel muro rustico per sistemare la provvista del lardo. Solo la biancheria di lino locale sembrava dare splendore a quella casa.
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Scritto da carlo moretti
Capitolo 6
Le palatalizzazioni nei dialetti della Sardegna settentrionale
Da un punto di vista sincronico, sulle palatalizzazioni che caratterizzano i dialetti della Sardegna settentrionale si può affermare che gli studi condotti fino ad oggi hanno detto praticamente tutto quello che era ed è possibile osservare. Alle indagini di Wagner e Bottiglioni si sono aggiunte, alcuni anni fa, le osservazioni di Paulis che hanno completato in modo esaustivo il quadro delle conoscenze sull’argomento. Non solo, le analisi strumentali di Contini consentono perfino di individuare le linee evolutive del fenomeno, la cui vitalità, almeno per quanto attiene alle aree periferiche rispetto all’epicentro dell’innovazione, non sembra essere giunta al termine. Ciò si comprende bene se si inserisce questo discorso all’interno di un orizzonte in cui agiscono altri fattori che concorrono alla dilatazione o, al contrario, alla regressione delle innovazioni di tipo linguistico. Fattori che altri studiosi hanno da tempo individuato nel prestigio che una determinata varietà può acquisire a seguito dell’espansione della sfera d’influenza politica, economica, amministrativa e culturale da parte dell’area demografica di cui è espressione.
Successivamente da tale area l’innovazione può propagarsi a quelle finitime oppure può essere “paracadutata” in una exclave, in genere rappresentata da un centro più evoluto rispetto ad altri, e da quest’ultimo seguire autonome vie di espansione.
Tutto ciò da un punto di vista sincronico. Dal lato diacronico le cose sono meno pacifiche e non può essere altrimenti se si considera che la conoscenza storica di un fenomeno linguistico si basa su documenti che, tuttavia, a volte possono mancare o essere insufficienti per una loro descrizione puntuale. Wagner nella sua magistrale opera sulla fonetica sarda (HLS), poi ampliata da Paulis (FSS), riuscì a portare a sintesi queste conoscenze, sintesi di cui, considerato il periodo durante il quale svolse le sue indagini, le conclusioni sono largamente da condividere. La successiva edizione, da parte del Sanna, del Codice di S. Pietro di Sorres consentì di disporre di un testo fondamentale per un più esauriente inquadramento della questione.
Nell’introduzione alla fonetica wagneriana Paulis si è valso puntualmente dei nuovi dati per tracciare il nuovo orizzonte, ormai quasi definitivo, al quale le nostre informazioni sono pervenute.
In generale le conclusioni di Wagner sono state convalidate, con qualche distinguo, dagli autori successivi, i quali in pratica hanno operato una retrodatazione dell’insorgenza delle palatalizzazioni rispetto al sec. XVI. È questo infatti il periodo che il linguista tedesco, sulla scorta degli esperimenti poetici dell’Araolla, assumeva come riferimento cronologico. Non che egli non avesse intravisto, in fonti anteriori, sporadiche interferenze che segnalavano una più antica insorgenza del trattamento. Wagner, anzi, individuava in un nucleo di documenti del sec. XV, pubblicato dal Tola nel suo monumentale Codex, altri dati utili per una più soddisfacente datazione della fase in cui l’innovazione in questione prese piede per poi consolidarsi. A tale nucleo appartiene, per l’esattezza, anche una parte del citato Codice di Sorres, già pubblicata dal canonico Giovanni Spano poco dopo la metà dell’Ottocento. 144
Sta qui, appunto, il nòcciolo del discorso che, giunto a risultati ormai acquisiti sul versante sincronico, stenta a trovare una precisa definizione storica. Wagner, con la prudenza che lo distingueva, tendeva a descrivere i singoli fenomeni in presenza di una documentazione ricca che lo mettesse al riparo da sviste sempre possibili in una disciplina che difficilmente ammette approssimazioni. Ma forse in questa tendenza è da scorgere una minore propendenza del grande tedesco all’analisi dei fatti storici sia pure in chiave linguistica. Un chiaro indizio in tal senso è rappresentato dalla sua adesione, sorprendentemente acritica, alla teoria delle “mortalissime pestilenze” addotta da Vittorio Angius per giustificare la nascita del dialetto sassarese.
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