Scritto da carlo moretti
Spesso e volentieri, mi capita di sentire gli amici domandarmi: «perché Windows è così lento? Quando l’ho acquistato era una scheggia! Ora impiega un sacco di tempo per partire e aprirmi le applicazioni!»
La risposta che spesso terrorizza tutti è: «se lo formattiamo e reinstalliamo Windows, torna la scheggia di prima.»
Devo dire, che questa è una di quelle risposte dove anche io storgo il naso solo a pensarla. Di solito però e la prima che viene di getto, che ha un impatto molto alto, sulle persone che vivono nella paura di perdere software, dati e impostazioni che per chi non ha una certa dimestichezza diventa un lavoro tutto in salita. Non parliamo poi quando si tratta di recuperare i drive dei componenti del nostro computer, se si tratta di un assemblato, il lavoro di reinstallazione getta nel panico anche i più esperti, peggio ancora quando si tratta di notebook.
Se poi la risposta è: «potrebbero essere i sintomi del disco rigido che sta per lasciarci», allora c’è il pericolo che qualcuno aspiri al suicidio….., scherzo naturalmente.
Quando compriamo un personal computer sia da tavolo o portatile, non facciamo mai caso a come lo maltrattiamo; acquistiamo riviste che contengono dvd con tanto software e giochi da provare, installiamo e disinstalliamo (quando ci ricordiamo), senza badare al fatto che tutte quelle scritture nel disco, non sono mai contigue. Ad esempio: se noi compriamo un quaderno per scrivere le nostre poesie, iniziamo dalla prima pagina per finire con l’ultima, ma quando poi le rileggiamo e facciamo una cernita, faremo delle cancellature alternativamente lasciando dei vuoti di lettura proprio in mezzo al quaderno.
Succede così anche in un disco rigido, come noi perdiamo tempo a sfogliare le pagine cancellate prima di arrivare alla successiva ancora scritta, anche il nostro disco perderà del tempo a spostare le testine sui suoi piatti allungando i tempi di risposta alle nostre ricerche.
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Scritto da carlo moretti
In s’ispidale de Tempiu
de Bainzu Truddaiu
(A sos poetas cadduresos)
Una domitta chi tenzo in Baldedu
est minoredda, ma fit cori manna
cando fia ‘erettu che una canna
e pienu ‘e poeticu meledu:
bi ‘eniat poetas de Nughedu,
Dettori, Espa cun Antoni Sanna:
Giampaiana tottu cussa gianna
cun coro mannu e risittu masedu.
Amada Poesia, cantu m’hasa
dadu amigos caros a su coro
e ancora bastante mi nde dasa!
De Tempiu in cust’add”e su piantu,
poetas cun sa pinna infusta in oro
mi carignan ancora in modu santu.
Prima, comente nei, pro sa Pasca,
poetas sardos mannos fini in domo,
e ca m’istimaian los fentomo
e ne prom’ ‘ider timian burrasca
cando pius infusta fit sa frasca.
Gai che tando istadu essera como,
forte che turre, nuraghe o duomo;
no goi cun s’alenu casca-casca (1)
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Poesia |
Scritto da carlo moretti
Fuori, ad una estremità e all’altra della strada dritta, animata in quell’ora da torme di ragazzi, si vedevano due cime di monti, nera quella a destra sullo sfondo rosso del crepuscolo, azzurra quella a sinistra, sul cielo pallido, con una grande luna d’oro sopra. Ma come nelle altre sere Bainzeddu, con le sue brachine sporche e il corpettino di velluto lacerato, non si staccava dal gruppo degli altri ragazzini per avvicinarsi al nonno e cercare di strappargli il bastone con ambe le manine aspre, facendo forza indietro, coi bei dentini stretti e i grandi occhi azzurrognoli scintillanti sotto la frangia dei capelli selvaggi.
Il nonno però non s’inquietava; pareva sapesse che il ragazzo era già nascosto e aspettasse la fine dell’avventura. In tutto il pomeriggio non aveva aperto più bocca; neppure quando venne la nuora, sul tardi, per prendere il ragazzo, disse una parola.
Il ragazzo non c’era.
La madre, piccola e affaticata come una servetta, si affacciò alla porta per chiamarlo.
- Baì? Bainzé? -
L’asinello, dentro, si fermò ascoltando. Il ragazzo non rispose. La madre tornò nella cucina, andò nel cortile, salì nelle camere di sopra.
- Bainzé? Bainzeddu? -
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Scritto da carlo moretti
Il complotto si fece, come tutte le riunioni importanti che i parenti Coìna dovevano avere fra di loro, se a queste era necessario che assistesse il nonno, appunto nella cantina del nonno Bainzone.
Il nonno Bainzone era stato sempre un uomo giusto, di buona coscienza: ormai vecchio e quasi impotente passava i giorni accanto alla sua porta, come un idolo di legno messo lì a guardia della casa. Non parlava mai: passava il suo tempo a guardare e giudicare fra di sé la gente che attraversava la strada.
Viveva con la figlia minore, Telène, vedova d’un ricco massaio, e col nipotino Bainzeddu figlio di lei; ma continuamente gli altri figli e i nipoti e i pronipoti lo visitavano, specialmente per chiedergli parere e consiglio in certi gravi casi di coscienza, salvo poi a non dargli retta. Ma il solo pensiero che egli sapeva ciò che essi volevano fare, anche se ingiusto, sopratutto se ingiusto, acquetava la loro coscienza: così se qualcuno li rimproverava essi potevano rispondere pronti: il nonno non ha detto niente.
E questo bastava, per acquetare tutti. Da qualche tempo, però, il nonno non rispondeva neppure alle loro questioni: li guardava e li giudicava, fra di sé, come la gente della strada, e il suo silenzio li incoraggiava maggiormente. Tutti i giorni qualcuno di loro veniva: se la conferenza era di lieve importanza si svolgeva davanti alla porta; se no il nonno doveva alzarsi, aiutato dal parente, attraversare lo stretto androne su cui davano le porte della cucina e della domo ‘e mola, la stanza della macina per il grano, scendere i sette scalini ed aprire la cantina.
Nella cantina si poteva parlare con tutta libertà, senza essere ascoltati dai vicini di casa e dai passanti; e poi si beveva.
- Santone, coraggio, andiamo alla festa – gli diceva quel giorno battendogli lievemente le dita sulle spalle e conducendolo cautamente giù per i sette scalini Antoni Paskale, il più bello dei nipoti, un giovane alto e forte noto a tutti per la sua prepotenza.
Seguivano gli altri, dal passo pesante. Erano tutti vestiti di nuovo, e alcuni un poco alticci perché un pomeriggio di festa, il giorno della Pentecoste.
Il vecchio si lasciava portare, appoggiando la mano alla parete; ma il suo viso duro, nero, circondato da una grande barba giallastra che saliva fino alle tempia ove si confondeva coi capelli e con le folte sopracciglia a ricciate, e i grossi occhi gonfi, nerissimi, esprimevano una resistenza interna, un diffidare cupo, irriducibile.
Giunti alla porta della cantina parve esitare, prima di trarre la chiave che teneva sempre con sé; poi accorgendosi che Antoni Paskale tentava di frugargli in tasca si decise, e aprì tastando con le dita la serratura per trovarne il buco. La porta era grande e solida come un portone, fermata a metà, di dentro, con un lungo gancio di ferro arrugginito; l’altra metà si aprì, ne uscì un odore di sotterraneo, di formaggio e di vino, e apparve l’interno misterioso.
Per tutti quegli uomini e quei giovani forti che seguivano il nonno, il luogo era stato sempre ancor più misterioso e attraente d’un ripostiglio che esisteva nella casa di uno di loro, Paulu, il primogenito del vecchio Bainzone; si diceva che questi teneva là dentro nascosto un tesoro e perciò non dava mai a nessuno la chiave; si diceva poi che chi entrava con un dispiacere ne usciva allegro, e questo era vero perché c’era del vino forte e una provvista d’acquavite.
Tutti i giovani, passando, toccarono il palo del gancio, col quale s’erano esercitati, da ragazzi, fuggevolmente, nei giorni in cui si rimetteva il vino e la porta rimaneva un poco aperta. La luce pioveva da un finestrino alto inferriato spandendo un chiarore argenteo sulle botti nere dalla faccia rossa, allineate come altrettante sorelle.
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Scritto da carlo moretti
Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo.
Eri nella carlinga,
con ali magline, le meridiane di morte,
- t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura.
T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo.
Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri,
come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi».
E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino ate, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Omine de su tempus meu de Minnia Fenu
Ses ancora cuddu de sa pedra e de sa frunda,
omine de su tempus meu.
Fist in su fusu de s’apparecchiu,
cun sas alas malignas, sos mesudies de morte,
- t’hapo ‘idu – intro su carru ‘e fogu, cunsiente a sas furcas
e a sas rodas de tortura.
T’hapo ‘idu: fisti tue,
cun s’iscienzia tua pretzisa cunbinchida a s’isterminiu,
senz’amore, senza Cristos.
Has bocchidu ancora,
coment’e sempre, comente ‘occheini sos mannos nostros,
comente ‘occhein sos animales chi t’han bidu sa prima ‘olta.
Custu samben fiagat pretzisu che-i sa die
chi su frade nelzeit a s’ateru frade:
«Ajò a sos campos».
Cussu rembumbu frittu, ostinadu,
est bennidu finas a tie , intro ‘e sa die tua.
Ismentigade, fizos caros, sas nues de sambene
pigadas da-e terra, ismentigade sos babbos:
sas tumbas issoro affungana in sa chijina,
sos putzones nieddos, su ‘entu, covacana su coro issoro.
Scritto da carlo moretti
Concludiamo con i brani seguenti, la gara poetica a Seui nel 1996 tra Marieddu Masala e Juanne Seu, alcuni giorni fà abbiamo pubblicato il secondo tema e ora per terminare vi proponiamo la fase finale con “Duinas”, “Battorinas” e sa “Dispedida”.
Oltre i versi, troverete all’inizio di ogni genere, un lettore mp3 che vi consentirà di sentire la registrazione della gara. La necessità di dividere la registrazione in tre parti, è unicamente una mia scelta, dovuta al fatto che con spezzoni di files più piccoli, sono agevolati all’ascolto anche gli utenti con linea non ADSL. vi consiglio di avviare il lettore prima di iniziare la lettura dei versi.
Buon ascolto e buona lettura.
MARIEDDU MÀSALA / JUANNE SEU
Festa de Santu Pitanu
Seui, su 4 de Austu de su 1996
DUINA
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Scritto da carlo moretti
Di Grazia Deledda:
Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l’ultima, e guardava già per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie.
Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendenti ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani.
In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di muschio giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza.
Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo; però una leggera nuvola era apparsa dopo due anni di completa felicita sul cielo sereno della sua esistenza. Saveria non lo aveva reso né ancora accennava a renderlo padre! Era una cosa ben triste! Egli l’aveva tanto sognato un bel marmocchio bruno come lui che appena in gambe l’avrebbe seguito su e giù, fra i boschi e le valli, aiutandolo nelle dure fatiche di pastore; un marmocchio che poi, fatto forte giovanotto, la gioia e la speranza dei suoi vecchi, ammogliandosi avrebbe a sua volta tramandato il loro nome e la discendenza dei loro armenti in un altro, e così via pei secoli dei secoli! Tutti gli avi di Antonio erano stati pastori: e questa gloria egli sognava di continuarla ma come fare se non veniva l’erede?
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