Scritto da carlo moretti
Sabato prossimo a Chiaramonti, nella larga piana di Codina Rasa si svolgerà una delle ormai tradizionali sagre promossa dalla Pro Loco per presentare i prodotti della nostra terra e della principale economia che ancora resiste, anche se a stento, nel territorio del nostro paese: la Sagra della ricotta.
Parlare solo di ricotta per quanto saporita, sembrerebbe diminutivo nei confronti di tutti i prodotti latteo-caseari più pregiati, come il formaggio le perette ect., ma dobbiamo ricordare che in periodi più floridi per l’economia interna di Chiaramonti, tre caseifici si occupavano della lavorazione di quasi tutto il latte munto nei nostri ovili e i prodotti finali venivano perfino esportati in altri continenti.
Altri tempi, ci siamo fermati a riflettere sperando in una futura ripresa che però non è mai arrivata.
Il programma di sabato prossimo prevede l’apertura dei vari stands alle ore 17:00, dove oltre i vari prodotti caseari o dell’agricoltura, sarà possibile osservare la creatività nel plasmare vari materiali frutto della natura come ad esempio il sughero o ferro e rame lavorato da abili mani.
Seguirà alle ore 18:00 una dimostrazione che spiegherà ai presenti la lavorazione del latte a partire dalla mungitura fino alla preparazione della ricotta e dei vari alimenti a base di questo gustoso latticino.
Alle ore 20:00 tutti a tavola per la degustazione di vari piatti a base di ricotta. Durante la manifestazione, si potrà godere dell’esibizione dei “TURPHOS” DI OROTELLI con musica etnica e balli tradizionali
Naturalmente dopo aver mangiato, tutti potranno ascoltare o ballare, almeno i più virtuosi, dopo le ore 21:30 con la musica dal vivo.
A nome della Pro Loco vi auguriamo buon divertimento!
Scritto da angelino tedde
Dopo un lungo periodo d’interruzione, forse preso dalla stanchezza di trascrivere per i visitatori di Tzaramonte un inventario assai sostanzioso di un ecclesiastico che si è dato da fare, facendo anche da procuratore ad una doviziosa Signora di Chiaramonti, e che si suppone seppellito in Monte ‘e Cheja in una delle quattro tombe della prima cappella a destra, entrando nell’aula della chiesa diroccata, riprendo la lettura su cui gli storici della tradizione e gli antropologi culturali e gli stessi storici dell’economia potrebbero trovare tanto da dire e da commentare.
Io, trascinato per amore del mio paese, un po’ fuori del mio settore, che è quello della storia dell’istruzione e delle istituzioni educative, ora non vedo l’ora di concludere per continuare a pubblicare i regesti degli altri atti dell’Ottocento (1827-1866).
E’ indubbio che sia dai beni mobili che dai beni immobili possiamo dedurre l’agiatezza di questo vice vicario che lascia usufruttuaria di tutto la sorella Francesca ed eredi le nipoti figli di un fratello.
Negli articoli precedenti abbiamo rilevato i lotti esistenti nelle altre camere dell’abitazione del vice vicario, ora ci soffermiamo sui lotti esistenti nella cucina comprendenti utensili e provviste, inoltre sulla consistenza del bestiame e sui beni immobili. Per facilitare la lettura abbiamo inserito tra parentesi il numero dei lotti a volte costituiti da un solo oggetto a volte da più oggetti.
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Scritto da angelino tedde
Come potrei riconoscere la mia identità se non avessi la memoria del mio passato? Non solo è scritto sull’estratto dell’atto di nascita e sulla carta d’identità, ma nella memoria dell’infanzia quando i miei compagni mi chiamavano col nome e cognome, più spesso col soprannome. Per dieci anni il mio nome e spesso il mio cognome lo pronunciavano le donne e gli uomini del vicinato, specie se combinavo qualche marachella.
A volte, più che col cognome, m’indicavano come su fizu de Angelinu Tedde, o semplicemente, fizu de Serefina Pira, dato che nella zona viveva una cugina di mamma, anziana, chiamata Serefina Soddu.
La mia identità veniva data anche dall’indicazione del rione in cui abitavo, sa Niéra, memoria persa di un’antica ghiacciaia oppure ricordo collettivo della neve che in quel pendio esposto a nord di Codinarasa, sostava più che in altre parti del paese; neve, così familiare tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Quanti candelotti di ghiaccio strappati alle tegole dei tetti bassi e consumati come gelati!
A ricordarti la tua identità poi, sempre nel vicinato, c’erano i compagni Giovannino e Ico Biddau, Faricu e Giovannina Tolis, Margherita e Giovanetta Biddau, i fratelli Pisanu e le sorelle Ruju-Cossiga, per dire soltanto dei ragazzi e delle ragazze. C’erano poi gli adulti: zia Domenica, zia Leonarda, zia Marietta, zia Nannedda, zia Mariantonia. Non sto a citare gli uomini le cui immagini si sono stagliate nella memoria cadenzate dall’incedere dei cavalli o degli asinelli che cavalcavano oppure a piedi, ricurvi, con la bisaccia ripiena e con gli arnesi da lavoro sulle spalle.
Infine, c’era la strada, via Garibaldi, e le strade e piazze adiacenti dove si andava a giocare rumorosamente: Caminu ‘e Litu, Piatta ‘e Caserma, Codinarasa su Mulinu ‘e su Entu.
Queste relazioni con le persone più vicine, con i luoghi presso cui sei vissuto, sono quelle che t’imprimono un marchio indelebile che solo la follia e la perdita totale della memoria possono toglierti.
Potrai vivere nelle lontane Americhe o in Australia, in Belgio o in Germania, in Piemonte o in Lombardia, a Varese o a Busto Arsizio, a Pinerolo o a Torino, a Catania o a Napoli, ma la tua identità non si cancella e con essa la memoria delle tue origini, con tutta la ricchezza delle emozioni che suscitano.
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Scritto da carlo moretti
Nata come applicazione militare e diffusasi poi come strumento di comunicazione tra ricercatori di università statunitensi, Internet è entrata a far parte stabilmente, negli ultimi dieci anni, della nostra esistenza quotidiana.
Un computer, nemmeno particolarmente recente e potente, un modem, per i più sofisticati una webcam, e siamo in contatto con tutto il mondo.
Molti sono scettici circa questo nuovo sistema di comunicazione. Alcuni pensano che Internet, diffusa capillarmente in tutte le famiglie, così come ormai avviene in tutto il mondo occidentale, sia un falso bisogno, indotto dall’industria, generato dai soliti persuasori occulti al fine di vendere un maggior numero di personal computer e di altri aggeggi tecnologici assolutamente inutili.
Altri apocalittici temono che la nuova tecnologia rafforzi la solitudine o l’isolamento dell’uomo contemporaneo, ne assecondi i tratti schizoidi e l’anomia, liberi la psicopatologia più torbida, contribuisca alla diffusione di quella folla solitaria, composta da milioni di atomi senza legami che caratterizza ormai la vita delle metropoli moderne, faciliti i comportamenti criminali e antisociali.
Certamente la Rete non è Utopia o la Città del Sole, non rappresenta la comunità ideale.
I pedo pornografi, i terroristi, i fanatici, i trafficanti di droga e i truffatori di ogni risma trovano certamente nella Rete un supporto tecnologico che rende più efficaci i loro propositi distruttivi.
Nella Rete, in definitiva, si rispecchia la società,. insidiata costantemente dal Male e caratterizzata anche dalla violenza, dalla corruzione e dalla criminalità.
Ma la Rete possiede anche delle interessanti potenzialità progressive, democratiche, liberatorie ed è questo il principale motivo per cui la sua diffusione va incrementandosi in modo capillare in tutto il mondo ed è per tale ragione che i regimi tirannici e totalitari l’avversano, la temono e la censurano.
Internet agisce da moltiplicatore delle informazioni e della conoscenza, dà democraticamente la parola a tutti, favorisce i contatti interpersonali, lo scambio di idee, di merci e di servizi.
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Scritto da angelino tedde
Pagu apo drommidu custa segunda note de s’annu nou e tando in gabanu e cappellu mi so postu a girare peri sas carrelas. Bentu nonchent’ at, sas istellas parent riendee sa iddia est falada puru istanote chi non poto narrer profumada, puru si sa zente at in domopeta casu regotu ed ogni dulcura traditzionale.
Mi frimmo a s’abbojada de ogni carrela e intendo tzocos de ogni manera chi non cherzo mancu fentomare. Si cumprendet chi sa zente at mandigadu che sete canes, at buffadu che unu boe giavesu e a de note faghet pelea a nde catzare s’alenu. Zertu s’imbreagone paret una locomotiva de sos tempos, su chi at mandigadu che porcu paret late in buliadura, su cagassicu mancu s’intendet, puru si in custas dies at mandigadu a mata franca in dogni domo.
In calchi domo est devidu currer su dutore pro ajuare a ispilire imbreagheras e mandigheras foras de modu.
Pro no umiliare su patziente su dutore de sa guardia meiga, unu bellu e bravu zovanu, narat a totu chi si traterat de unu virus chi dae domo in domo faghet sa festa a chie agatat in sa gianna. E canta zente in custas die de inu e de mandigu s’est postu in gianna? Deo, sempre abbaidende dae sa corte cun su cannochiale apo idu solu giannas tancadas, si puru dae sas domos ant a bessire ciarras de ogni manera.
Cust’est zente chi no at fatu festa pro s’annu etzu chi s’inch’est boladu, ma pius a prestu at fatu
festa a sa bentre sua, puru cuddos chi intro s’annu ant a leare su tidulu de Barone de Campusantu. De custos Barones chend’at sempre de pius e sa idda si ch’est morzende ca como fizos non nde faghet niunu.
Unu fizu? Unu peraula est? Ti paret chi mi so laureada pro fagher fizos? Tue ses macu!
E peristantu mandigant che chentu bitellos orfanos de Othieri, dae sa pintzione de su babbu de sa mama e si b’est ancora su giaju issu puru faghet sa parte pro custas nebodeddas istudiadas, cum sempre in coddu sas prennas. Si daeboi faeddas cun sos nebodes diplomados o laureados de primu o de sigundu livellu (como si narat gasi) tando est sa fine de su mundu! Braghett’allegros eja, ma a fagher fizos, già b’ant pensadu a tempus soubabbu e mama, unu pagu istudiados e chena televisione o ateros apentos.
Como est unu giogu a morrocula ogni borta: una cosa est a si gosare, una gosa est a fagher fizos! Ello chie mi los campat, Bellusconi? E Tzaramonte finit cando ant a interrare s’ultimu Barone.
Sa cosa però non finit gasi, pruite poi su comune de Martis comporat totu, comente Bonorva at fatu cun Rebecu, e ogni annu faghent su yorkshop a base de casu, de regotu e de salstitza. E meda zente enit a visitare Tzaramonte e a narrer comente su machine de s’istudiu at insinzadu a sos giovanos a non fagher fizos, ma a giogare solu a morrocula!
Est bessende s’avreschida in su chelu de sa Rughe e deo cum custos pensamentos minche torro a domo.Cantos annos at a campare Tzaramonte? Dae Putugonzu appeddende su cane de tiu Antoninu paret che mi nerzat:
- Ite che faghes in logu furisteri, nessi sos canes nch’amus a istare sempre a Tzaramonte!-
-Cagliadi, cane runzosu! E lassa chi mi diat boghe su cucu!-
-Cucu bellu de cantare cantos annos bi gheret a Tzaramonte pro si trobojare?-
-
Su prim’e s’annu gia si ch’est boladu
in custa idda rica de ogni cosa
casu e regotu ant totu mandigadu
e che unu riu ant buffadu binu ‘e Bosa.
Arrochidos su note ant passadu
sos betzos cun sos zovanos in rosa
su bentre cripu fit meda buliadu
e cantaiat in poesia e in prosa.
Su dutore luego ant giamadu
chi nachi virus malu fit in giru
che su colera de tempus antigu.
Binu e casu in buca est torradu
e suta nd ‘est faladu solu a tiru,
de totu su dutore fit amigu.
-
Anghelu de sa Niera
Scritto da Gianluigi Marras
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Analisi topografica
L’area da me analizzata mediante ricognizione archeologica è nota nella cartografia catastale come San Matteo[1], ma viene chiamato popolarmente Monte e’cheja, ovvero “monte della chiesa”. La toponomastica riporta dunque memoria dell’antica parrocchiale di San Matteo, traslata poi nell’attuale sede nel 1888[2], e non serba traccia dell’antico castrum.
Effettivamente la prima ubicazione del castello nel sito è quella dell’Angius, seguito poi dal La Marmora e quindi dagli altri studiosi di storia sarda, nella prima metà dell’800. Ancora il Mamely de Olmedilla, nella sua Relazione del 1769[3] (scritta l’anno prima), descrive la parrocchiale[4], “…grande e non brutta né in cattivo stato…[5]“; ci dice inoltreche la pianura dove è situata in passato doveva essere popolata, “…secondo quanto indicano le fondamenta di abitazioni…[6]” senza però far menzione di eventuali torri o apprestamenti militari.
L’Angius[7] è invece il primo che identifica il sito della chiesa parrocchiale con l’ubicazione dell’antico castello. Al momento in cui scrive “…sta ancora tutta intera una torre, perché fattasi servire a campanile; sono di un’altra visibili alcune parti, ed è qualche vestigio delle mura, tra le quali la cisterna scavata nella roccia…”[8]. Il generale Della Marmora, che visitò il paese nel 1834[9], riteneva invece che della costruzione militare non restasse traccia e che sul suo perimetro fosse sorta la chiesa[10].
Descrizione geografica
La collina di Monte e’cheja è una delle tre alture su cui insiste il centro urbano di Chiaramonti, più precisamente quella posta a nord-est, di fronte alla collina denominata Cunventu a nord-ovest e a quella di Codina Rasa, sud-est. Tutto il massiccio è posto a strapiombo verso la fertile vallata interna dell’Anglona ad est (dove sorgono gli attuali centri di Martis, Laerru e Perfugas) e la vallata del Rio Iscanneddu a nord e nord-ovest (nella zona è vitale attualmente solo il villaggio di Nulvi, ma nel Medioevo vi si contavano molti insediamenti civili e monastici), mentre degrada più dolcemente verso sud. Storicamente il centro di Chiaramonti rimase isolato dalle vie di comunicazione fino agli anni settanta dell’ottocento, quando venne costruita la strada statale da Ozieri e Castelsardo[11], che ancora lo attraversa.
L’area sottoposta all’analisi è costituita dal tavolato calcareo in cima a Monte e’cheja, posta alla quota di 467 m s.l.m.. I versanti si presentano piuttosto ripidi in tutte le direzioni: solo a sud-ovest c’è la possibilità di un’ascesa, mentre ad ovest, sud, nord e nord-est si nota la presenza di pareti rocciose verticali di varia estensione. Specialmente il versante ovest è costituito da un fronte roccioso alto circa 10 m, di quasi impossibile percorrenza, soprattutto nei mesi invernali.
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Scritto da ztaramonte
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Gianluigi Marras è il primo archeologo medievista, nativo di Chiaramonti, del quale abbiamo avuto modo di parlare in altra occasione. Con questo contributo e con gli altri che seguiranno ci svelerà la storia del Castello. Lo ringraziamo calorosamente per la sua collaborazione.
Introduzione
Il castello di Chiaramonti è da sempre noto agli storici sardi, che tuttavia hanno generalmente fornito solo laconiche informazioni sulla sua storia ed evoluzione nello scorrere del tempo, sulla sua ubicazione e sulle eventuali strutture materiale superstiti. La vulgata ha in particolare tramandato le notizie di un castello appartenuto dapprima ai Malaspina, poi ai Doria (Matteo, Brancaleone e Niccolò), la cui torre è stata poi riutilizzata come campanile della parrocchiale del centro di Chiaramonti.
La mia ricerca[1] parte da queste basi per cercare di fare il punto sulla storia, le strutture materiali e l’evoluzione del castello di Chiaramonti, partendo dall’analisi delle fonti archeologiche, e prima di tutto dagli imponenti ruderi della chiesa di San Matteo, e dalla raccolta delle fonti documentarie edite. Naturalmente non si ci si è posti limiti documentando ogni tipo di emergenza presente nel sito e ogni reperto, a prescindere dalla loro cronologia e funzione. Riteniamo infatti che solo procedendo con un approccio scevro di pregiudiziali si possano raccogliere tutti i dati concernenti un sito, per poterne poi ricucire la storia.
Lo studio dei castelli medievali della Sardegna, e in particolare riferimento alla situazione del Regno di Torres[2], è stato spesso condotto con criteri e metodi non troppo scientifici e risente inoltre della mancata ricaduta del dibattito nazionale e internazionale, avviato dalle tesi del Toubert negli anni 70′ e i cui frutti, a livello archeologico, sono giunti dalla fine degli anni 80′, con un alto grado di raffinatezza specialmente per i contesti liguri, laziali e toscani.
Poco interesse ha infatti finora suscitato il tema dell’incastellamento, ovvero delle ricadute della fondazione dei castelli sull’insediamento preesistente, e pochi i contesti studiati, sia dal punto di vista storico che archeologico; da ricordare comunque le analisi storiche e archeologiche effettuate nei castelli di Bosa, Monteleone Roccadoria, Ardara e Castelsardo da parte dell’èquipe del prof. Milanese e gli approfondimenti della documentazione specialmente aragonese effettuata negli ultimi anni da Angelo Castellaccio, Giuseppe Meloni, Giuseppe Spiga, Alessandro Soddu e Franco Campus, che hanno mostrato come possa essere ancora fruttuosa la ricerca negli archivi iberici.
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