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Creditori e debitori ovvero acquirenti e venditori a Chiaramonti dal 1832 al 1834. L’attivissima Contessa di Sant’Elia e il continuo arricchimento di Pietro Canu. A cura di Angelino Tedde.

Scritto da angelino tedde

Questo protocollo consta di 103 fogli contenenti 48 stromenti.

(Esso va dal 1832 al 1837, in questo articolo ne prendiamo in esame 23, che vanno dal 1832 al 1834. Ndr ).

Questa volta, per una maggior visibilità di lettura, elenchiamo da prima gli attori degli atti, testamenti e attori d’inventario compresi, e successivamente le controparti.

Possiamo rilevare subito che tra i venticinque attori, (comprese fratelli e sorelle Satta e Mureddu Perinu), i nobili sono i cavalieri Caccioni di Chiaramonti e Scanu di Martis; tra i sacerdoti, emergono i testatori Satta, vicario, e il suo vice  Cabresu,  il sacerdoti Vincenzo Pietro Tedde; è defunto il sacerdote Bachisio Usai del quale si apre il testamento.; passando ai borghesi c’imbattiamo di nuovo con l’agricoltore Antonio Carlo Franchini, col falegname di sicura origine romagnola o lombarda, Battista Termali, (il Bogino aveva spedito in Sardegna falegnami, fabbri, e altri artigiani e professionisti di cui l’Isola era carente, si veda a riguardo su “accademia sarda” l’articolo di Prof. Paolo Amat di San Filippo), per la prima volta incontriamo il  pastore Leonardo Solinas. Fra i notai segnaliamo Pietro Falchi Sanna. Segnaliamo anche numerose donne, spesso sorelle dei defunti o venditrici, in particolare richiamiamo l’attenzione su Paola Fiore Demuru di Tempio, ma sposata e residente a Chiaramonti che lascia i beni ai figli. I nomi e i cognomi sono presenti ancora oggi a Chiaramonti. Forse non ci sono più i Cabresu, discendenti del vice vicario, a mezzo sorella. Per maggior utilità li indichiamo per cognome in ordine alfabetico Busellu Andreuzza di Martis, Cabresu Baingio, sacerdote, viceparroco, Caccioni Giovanni, cavaliere, Falchi Sanna Pietro, notaio, Fiore Demuru Paola, (2) di Tempio res. Ch.monti Franchini Antonio Carlo, agricoltore, Migaleddu Sanna Maria,  Mureddu Perinu Filippo, Mureddu Perinu Salvatore, Pinna Francesco, Satta Agnetta, Satta Bachisio, Satta Cuadu Battista, Satta Francesco Antonio, Satta Giovanni, (2) vicario parrocchiale, Satta Pietro, Satta Tedde Antonina, Satta Tedde Caterina, Satta Vincenzo, Scanu Gianmaria, Scanu Salvatore, cavaliere di Martis, Solinas Leonardo, pastore, Tedde Pietro Vincenzo, sacerdote, Termali Battista, falegname, Unali Meloni Giacomo, Usai Bachisio, sacerdote, (testamento),  Usai Stefano, di Sassari.

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Società e affari di nobili, chierici e borghesi in Anglona negli anni 1829-1831. A cura di Angelino Tedde.

Scritto da angelino tedde

Atti rogati dal notaio  Giovanni Maria Satta in Chiaramonti vol. 11. Busta 1. H 55  giacenti presso l’Archivio di Stato di Sassari (ASS).

Dato l’esiguo numero degli atti, stipulati anno per anno, ho ritenuto opportuno esaminare i regesti di tutti i 26 atti di un triennio, raccolti nel secondo volume degli atti del notaio sopra menzionato.

I protagonisti delle compravendite, testamenti e inventari sono Brundu Seu Francesca (2), Budroni Francesco, Busellu Antonio, sacerdote di Martis (4), Bosinco Carlo, sacerdote di Martis, Cabresu Baingio, vice parroco di Chiaramonti (2),Caccioni Matteo Satta, cavaliere (2), Camerini Angela Nella , nobildonna, Canu Giommaria Matteo, Canu Pietro, Carboni Delogu Salvatore, notaio di Sassari (3) Carta Manca Francesco, carmelitano, priore del convento di Chiaramonti; Casu Giuseppe  di Martis (2), Cossu Giommaria, Cossu Leonardo, sacerdote, (2) Cossu Salvatore Leonardo, Dellabella Anna (2), Deriu Antonio Giuseppe, impresario di Sassari,  Elia Baingio, negoziante, Falchi Cristoforo, baccelliere in leggi (2), Lavagino Giommaria di Castelsardo, Leggieri Pietrina, Madau Demuru Antonio, Manca Pietro, sacerdote beneficiato di Nulvi, Marras Giovanni,  Masala Salvatore, sacerdote ex carmelitano originario di Bosa, ma residente a Chiaramonti (3),  Masino Antonio, sacerdote di Castelsardo, Mudore Giovanni Matteo, falegname (2), Mudore Matteo, Mundula Sale Domenico Antonio di Sassari.

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Visita Pastorale del nostro Arcivescovo S.E. Mons. Paolo Atzei dal 7 al 14 marzo 2010.

Scritto da carlo moretti

In questi giorni riceviamo nelle nostre case, il calendario degli incontri e una lettera di invito del Parroco ai Parrocchiani che prepara la Visita Pastorale di S.E. Mons. Paolo Atzei nella Parrocchia di Chiaramonti. Nella lettera, il nostro Parrocco Don Virgilio Businco invita tutti a vivere questa settimana di grazia offerta dalle celebrazioni Eucaristiche e dalla presenza del nostro Arcivescovo in mezzo  al popolo chiaramontese.

Esorta quanti invitati e facenti parte dell’Amministrazione Comunale, dei gruppi Parrocchiali, gruppi laici e  varie associazioni, a partecipare numerosi alle iniziative che saranno proposte durante gli incontri proposti nel calendario settimanale che di seguito pubblichiamo.

Per dovere storico, riportiamo in coda, la cronaca redatta da Don Pietro Desole a riguardo dell’ultima Visita Pastorale di S.E. Mons. Salvatore Isgrò nel marzo del 2002.

7 marzo Domenica

ore 10,30 Ingresso solenne e inizio della Visita Pastorale

ore 12:00 Incontro con l’Amministrazione Comunale, Comando dei Carabinieri, Compagnia Barracellare.

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Affari, testamenti e inventari a Chiaramonti nel 1828.

Scritto da angelino tedde

Protagonisti: Pietro Canu e il prete Bachisio Usai.

Premessa

Abbiamo illustrato, utilizzando unicamente i regesti e qualche atto, vita quotidiana e morte a Chiaramonti negli anni 1826 e 1827. In sintesi ci siamo serviti di atti di compravendita di terreni, case e animali (e di qualche capanna), acquisizioni di censi, trasferimenti degli stessi, redazione di testamenti di chiaramontesi o dei dintorni, che poi, come vedremo, non sempre moriranno dopo aver testato, ma che continueranno  a vivere ancora per qualche anno.

Abbiamo conosciuto anche i protagonisti vincenti, in questo caso supponiamo gli acquirenti, e quelli perdenti, coloro che sono costretti a vendere, perché forse si erano indebitati con l’acquirente o forse perché avevano bisogno di liquidità per combinare altri affari. Abbiamo osservato anche con quali modalità  si doveva redigere il testamento, cioè con una triplice preoccupazione: la salvezza dell’anima, la sepoltura del corpo, la destinazione dei beni. La disposizione  sul luogo della sepoltura che poteva effettuarsi presso il cimitero della chiesa parrocchiale di San Matteo al Monte oppure sotto il pavimento negli oratori urbani di Santa Croce e della Vergine del Rosario o presso la Chiesa del Carmine attigua al Convento dei frati carmelitani, allora isolata dal centro abitato. Le salme, presumibilmente in una semplice bara di legno, venivano sistemate attraverso una scalinata nella cripta della chiesa, sotto il presbiterio o sotto qualche cappella laterale come nella chiesa del Carmine. Le diagnosi di morte non sono indicate negli atti, ma la tradizione parla di colpi apoplettici  (ictus), di mal sottile (tubercolosi), di malattie gastro-intestinali, di arresti cardiaci e, per chi subiva degl’interventi chirurgici, di setticemia. C’era poi chi moriva d’incidente: incornate di tori, punture di vedova nera, cadute da cavallo, precipitando da alberi o da picchi rocciosi alla ricerca di qualche capra o altro animale da allevamento. Infine, vi erano casi  di morte violenta: omicidi, suicidi, incidenti di caccia.

Cenni sul contesto storico europeo e italiano nel 1828:

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La morte apparecchiata a Chiaramonti nell’Ottocento (IV) (1827)

Scritto da angelino tedde

Non abbiamo sotto gli occhi tutti  i testamenti rogati a Chiaramonti nell’Ottocento, perché da quanto sta emergendo dalla loro lettura, sicuramente il testamento poteva essere consegnato, non solo al notaio del luogo di residenza, ma anche ad altro notaio e così per gli atti di compravendita e di altro tipo. In caso di malattia di questo e di un supplente notaio, come abbiamo già visto, poteva accogliere il testamento, nel rispetto dello stesso schema misto religioso e civile ad un tempo, lo stesso vicario parrocchiale.

Tutti i sudditi di Sua Maestà non potevano essere se non credenti per cui non si facevano problemi. L’alleanza fra il Trono e l’Altare funzionava talmente in sintonia che all’ora della Messa Grande o Alta, la domenica venivano chiuse, per ordine del Re, le stesse bettole. Chi poi non si recava a compiere il precetto domenicale veniva segnalato nel Registro dello Stato delle anime come inadempiente.

Per i ragazzi delle scuole normali e per gli stessi precettori benché religiosi vigevano gli obblighi mensili della Confessione e il conseguente accostamento alla Comunione e negli stessi giorni di scuola c’era l’obbligo della presenza alla Santa Messa. In genere si facevano due ore e mezzo di lezione la mattina e altrettanto il pomeriggio. Alla fine delle lezioni il precettore aveva l’ordine di far recitare l’Ufficio della Beata Vergine Maria.

Per non parlare dell’insegnamento della Dottrina Cristiana. Per coloro che non frequentavano la scuola c’era il parroco o uno dei suoi coadiutori o come a Ploaghe le Maestre della Dottrina Cristiana per il catechismo ai fanciulli.

A Chiaramonti i preti non mancavano, oltre al vicario parrocchiale Satta e al suo vice Cabresu,  in paese erano presenti i sacerdoti Matteo Caccioni, Pietro Vincenzo Tedde, Bachisio Usai, l’ex presbitero carmelitano, oriundo bosano, Salvatore Masala,  i tre carmelitani del Convento del Carmine. Per i chiaramontesi i curatori delle loro anime erano numerosi. Del resto come abbiamo visto, solo nel centro abitato c’erano due oratori (Santa Croce e Rosario) senza contare le chiese campestri di Santa Maria de Aidos, di Santa Maria Maddalena presso Orria Pitzinna e di Santa Giusta.

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Vita quotidiana e morte apparecchiata a Chiaramonti nell’Ottocento (1827)

Scritto da angelino tedde

Premessa

Nel 1827, nella Comune di  Chiaramonti, come in tutti gli altri quasi 300 villaggi della Sardegna, la vita si svolgeva soprattutto intorno al campanile di San Matteo al Monte verso cui le strade principali del paese tendevano a convergere, quali i carruggi, chiamati con vario nome: carruzzu longu, carruzzu ‘e ballas, carrela longa, piatta, carrela de su putu. Qualche sentiero campestre convergeva verso il Cunventu de sos Padres de su Carmine, detto appunto  Caminu de Cunventu; altro carruggio saliva al contrario  verso s’Oratoriu de su Rosariu, mentre dalla Piatta si scendeva verso s’Oratoriu de Santa Rughe e quindi a s’istradone che pericolosamente, a forma di serpente, da sa Rughe costeggiava la vasta e profonda conca, o depressione, di Putugonzu fino agli spuntoni di roccia alla periferia dell’allora centro abitato e poi proseguiva pericolosamente come sterrata lungo il pendio del monte per confluire nella sterrata prediale per Martis, passando per Erva Nana.

A sa Niera si stagliava superba, rispetto alle poche case basse adiacenti,  quella che era stata il palazzo della nobile e grande possidente, mezzo chiaramontese e mezzo nulvese, donna Lucia Delitala Tedde,  passato nelle mani agli oriundi ozieresi nobili Grixoni. Più a valle, a non molti metri di distanza dal palazzo Grixoni,  si stagliava il palazzo dei possidenti Migaleddu che più tardi, con l’alleanza matrimoniale con un maresciallo dei carabinieri toscano, costituiranno la fortuna dei Rottigni, promotori come si sa della modernizzazione del villaggio tra Otto e Novecento. I beni di donna Lucia, valutati in 10 mila scudi, nel 1760 (probabile anno della sua morte violenta) erano stati devoluti, secondo testamento, dalla nobildonna, grazie all’assistenza spirituale di un gesuita, dopo l’esilio a Villafranca di Piemonte, al collegio gesuitico di Ozieri.  I resti del patrimonio, dopo la soppressione della Compagnia di Gesù nel 1773, amministrati da una commissione apposita ozierese, che li dissiperà, giungeranno alla mensa vescovile  di Sassari e successivamente, questi Lo stemma dei Delitala-Pes nella chiesa parrocchiale di Nulvi (Foto di Gianfranco Serafino, Tempio)resti dei resti, verranno devoluti alla costruzione dell’attuale Chiesa di San Matteo  e della Santa Croce nell’area di sedime dell’abbattuto omonimo oratorio.

E probabile che sempre da Ozieri, all’epoca, fossero già insediati in paese, i Madau, quella che dalla seconda metà dell’Ottocento diverrà la più locupleta famiglia del villaggio, grazie all’apparentamento con i doviziosi Ruiu come documenterà il più ricco testamento dell’intero Ottocento tra gli atti rogati a Chiaramonti.

Nell’anno di cui esaminiamo gli atti vediamo agitarsi negli affari i Falchi e un certo Pietro Canu, benché in prima fila siano sempre membri del clero, seconda classe sociale privilegiata dopo in nobili, ma prima per dignità e per influenza carismatica sulle singole famiglie il cui ciclo della vita girava e sostava nella parrocchiale. D’altra parte il vicario e i suoi preti e i religiosi carmelitani coadiutori venivano utilizzati dal governo regio a molteplici funzioni civili che la pletorica assemblea comunicativa e i tre consiglieri col sindaco non erano in grado di svolgere.

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Vita quotidiana e morte a Chiaramonti nell’anno del Signore 1826 (agosto-dicembre)

Scritto da angelino tedde

Sguardi storici a cura di Angelino Tedde

Premessa

Dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo (1814), i sovrani europei avevano imposto, con fini strategie, la restaurazione del potere assoluto e l’alleanza fra il Trono e l’Altare.

Un’altra  Europa sotterranea però covava come il fuoco sotto la cenere: massoni, carbonari e altre società segrete oltre che giovani pensatori del livello di Giuseppe Mazzini (Genova 1805-Pisa 1872) e giovani combattenti per la libertà come Giuseppe Garibaldi ( Nizza,1807- Isola di Caprera 1882) allo scopo di rovesciare i sovrani dai troni e imporre la democrazia sperimentata durante la rivoluzione francese.

L’Italia era divisa in 7 Stati: Regno di Sardegna (gli Stati dei Savoia), Regno lombardo Veneto (Austria), Ducato di Parma e Piacenza (Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone) Ducato di Modena e Reggio(Asburgo d’Este), Granducato di Toscana (Asburgo Lorena), Stato della Chiesa (Pio VII), Regno delle Due Sicilie (Ferdinando I di Borbone).  Da questa divisione dell’Italia erano passati 11 anni.

I Savoia, che già possedevano il Ducato di Savoia, il Principato del Piemonte, la Contea di Nizza, il Genovesato,  dal momento in cui erano diventati re di Sardegna (1720), continuavano a governarla per mezzo di vicerè che si avvicendavano di triennio in triennio con residenza Cagliari. Tra i più noti e attivi viceré, dal 1735 al 1738, si era contraddistinto, per la sua determinazione repressiva Carlo Amedeo Battista Marchese di San Martino, d’Aglié e di Rivarolo, già severo comandante delle sabaude galere. Non se ne stette a dare ordini da Cagliari, ma a capo di un discreto contingente militare, visitò i villaggi più turbolenti dell’Isola, gettò nelle carceri ben 3000 pregiudicati, ne fece impiccare con rituali efferati 400 ed esiliò anche gl’intoccabili nobili divisi tra fautori della Spagna, dell’Austria e nuovi fautori del Piemonte. Le visite ai paesi dell’Anglona e della Gallura lo videro severo nei confronti dei capifazione di Nulvi e di Chiaramonti (i Tedde e Delitala) che mandò al confino per un biennio. Più tardi ci volle l’opera missionaria del gesuita piemontese Giovanni Battista Vassallo dei Conti di Castiglione che abbandonato l’insegnamento universitario a Cagliari si diede a predicare la parola di Dio tutti i villaggi della Sardegna e a promuovere le paci tra famiglie rivali, tra le quali i Tedde e i Delitala di Chiaramonti e Nulvi, e altre della Gallura. Tra l’altro compose un catechismo e dei gosos ai santi patroni in sardo logudorese. Chiudiamo, per ora, questa finestra sul Settecento e torniamo all’Ottocento a cui si riferiscono gli atti notarili

Il primo secolo del dominio sabaudo

Nel corso di oltre cento anni (1720 -1826). i sovrani sabaudi avevano provveduto ad imporre un maggior ordine nel bilancio del regno; a vigilare sugli arbitri di oltre 300 feudatari sardi e spagnoli (assenti questi ultimi, ma  rappresentati da appositi podatari); a restaurare le università di Cagliari e di Sassari, (1760-65), chiamandovi ad insegnare illustri studiosi di Terrafema; a restaurare le scuole inferiori (Umanità e Retorica), istituendo 7 classi che andavano dalla VII alla I , definibili classi boginiane); ad imporre l’uso dell’italiano sia nelle scuole accessibili dei collegi religiosi sia negli atti pubblici ed ecclesiastici; ad emanare l’editto delle chiudende per lo sviluppo dell’agricoltura, che appariva ai sovrani illuminati un modello economico più adatto alla “felicità dei sudditi” rispetto al modello scarsamente produttivo del pascolo brado; ad istituire, per la prima volta, nel 1823, le scuole normali triennali (elementari ante litteram) per insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto, la dottrina cristiana e il catechismo agrario ai ragazzi, allo scopo di dare a tutti i giovani sudditi un minimo di istruzione, e offrire ai talentuosi meritevoli, l’opportunità di proseguire gli studi medi e l’eventuale conseguimento di uno, di due, di tre o dei quattro gradi universitari (il triennale magisteriato, il biennale baccellierato, l’anno di licenza e, da ultimo, il curriculum massimo della  laurea). In pratica le università sarde sfornarono maestri d’arte, bacellieri, licenziati, laureati nei tre corsi universitari esistenti: il più ambito Teologia, al secondo posto Leggi e al terzo Medicina, la cenerentola fra le tre lauree perché di scarse occasioni di carriera e di rimunerazione. Dopo quest’altra finestrella, torniamo alle neonate scuole normali, dette in piemonte comunali, nel Genovesato elementari, nome che poi, nel 1841, Carlo Alberto  imporrà nei citati suoi 5 Stati, amministrati secondo le leggi proprie di ognuno, contrariamanete a quel che in genere si pensa, e purtroppo, alcuni storici distratti e improvvisati si scrivono.

Queste prime vere scuole popolari pubbliche, (anticipate dalle informali scolette parrocchiali con pochi privilegiati alunni), (catechismo e grammatica), furono messe a carico della Comunità, sotto la provvidenza del sindaco per i locali e le attrezzature e la sovrintendenza didattica e morale del parroco, per la vigilanza sui precettori che in genere erano i viceparroci o, se c’erano dei religiosi, questi ultimi.  Solo in mancanza di sacerdoti, in poche piccole comunità, si ricorreva a scrivani, a segretari comunitativi, a chirurghi e altri graduati all’università. Le spese del funzionamento erano a carico della Comune o Comunità, costituite da assemblee comunitative e da tre consiglieri che coadiuvavano il sindaco (1791) nella propria casa, un abbozzo ancora grezzo e informe di quello che più tardi diventerà il Comune autentico (1848), l’unica istituzione paragonabile a quella attuale.

Per le spese delle scuole, se non c’erano lasciti, si affittava un terreno comunitativo e dal ricavato si pagavano le spese per i locali, per il precettore e per le attrezzature.

Torniamo però al 1826. Le campagne del territorio chiaramontese continuavano ad essere chiuse con i muri a secco e naturalmente chi più si poteva allargare si allargava, anche se non più di tanto, perché c’erano ancora i latifondi del feudatario spagnolo. Con  la chiusure si rendeva più difficoltoso per la Comunità il diritto di legnatico, di acqua, di raccolta delle ghiande e altri prodotti per continuare a praticare “l’economia del maiale” come la chiamano gli studiosi. Per le semine c’erano ancora gli ademprivi, vale a dire sos padros, che gli abitanti utilizzavano con semine a rotazione e con disaffezione, per il frumento necessario per la sussistenza degli abitanti del borgo ai quali veniva dato in uso un appezzamento di terreno.

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